Alex Clark, la Repubblica 24/9/2014, 24 settembre 2014
AMIS E MCEWAN: «I NOSTRI LIBRI? ORA CI ANNOIANO»
Che ne dite di cominciare raccontandomi da quanto tempo vi conoscete e come vi siete incontrati?
Ian McEwan: Beh, erano gli anni Settanta.
Martin Amis: Il 1973, giusto?
IM: Credo sia stato in una di quelle feste di Natale alla Jonathan Cape, a quei tempi erano qualcosa di leggendario, di sfarzoso.
MA: Era più simile a una professione da gentiluomini, a quei tempi.
IM: Bevevamo di più a quei tempi. Martin venne da me e mi disse: «Ho letto il tuo racconto, Pornografia». E mi citò alla perfezione un passaggio. Lo trovai subito simpatico.
Tu te la ricordi così, Martin?
MA: Ricordo benissimo il racconto. Ma stavo giusto pensando che abbiamo pubblicato i nostri primi libri più di quarant’anni fa e proprio ieri leggevo il libro di Ian e ho visto sul risvolto di copertina che ha scritto quattordici romanzi e due racconti, esattamente come me. Insomma, le nostre vite sono state più o meno parallele.
Abbiamo cominciato nello stesso momento, ci siamo sposati nello stesso momento e abbiamo avuto tutti e due un figlio – un figlio maschio – nello stesso momento, e poi abbiamo divorziato tutti e due nello stesso momento.
IM: Questo lo hai fatto prima tu.
MA: E poi ci siamo risposati nello stesso momento.
IM: Allora forse moriremo nello stesso momento?
MA Sì. Già.
IM: Lasciamo da parte l’argomento per adesso.
Raccontate qualcosa di questi due nuovi romanzi e di come sono nati.
MA: La gente mi chiede perché ho deciso di scrivere un secondo romanzo sull’Olocausto, ma io non sono d’accordo sull’uso del verbo “decidere”. È una cosa che è dentro di me: colgo un barlume di qualcosa, un fremito, una pulsazione, e lo riconosco come il germe di un’opera che posso scrivere. Spessissimo comincio un romanzo pensando che sarà un racconto, poi dopo qualche mese mi dico, «Magari viene fuori un romanzo breve», e poi, dopo qualche mese ancora, «No, mi sa che con questo vado fino in fondo». Non riuscirei a cominciare un romanzo semplicemente attraverso un atto di volontà. Non riuscirei ad andare avanti senza quel momento abbastanza magico e misterioso in cui qualcosa viene da te, e senti con grande intensità l’obbligo di scrivere il romanzo, perché non è che succeda così spesso. Il barlume che ho avuto per The Zone of Interest è la prima pagina: è una sorta di amore a prima vista (anche se inizialmente in realtà è lussuria a prima vista) in un contesto che suona abbastanza rurale e anonimo finché non si arriva al “patibolo a tre ruote” in fondo alla pagina, elencato fra gli altri elementi del contesto circostante. Ti metti seduto e spesso, con tuo stupore, ti sembra che gran parte di tutto questo sia lì. Dopo fai vari tentativi ed errori, e poi cominci a prendere decisioni.
È lo stesso per te, Ian? Nei tuoi libri c’è qualcosa che mi fa pensare che ci sia il nucleo di un’idea che ti si para davanti all’improvviso, ma forse non è così.
IM: No, concordo con Martin su questo. Adoro quei periodi in cui ho terminato un romanzo, finito le interviste e la promozione e sono libero di seguire i miei interessi. Spesso non parto con l’idea di fare ricerche per un romanzo. E in questo caso, The Children Act, è cominciato tutto una sera che ero a cena con dei magistrati. Si prendevano in giro a vicenda per le rispettive sentenze e andavano giù abbastanza pesante con altri giudici non presenti. Ho pensato: «Accidenti, questi potrebbero fare i romanzieri». Poi a un certo punto il padrone di casa, Alan Ward, un magistrato stimatissimo, si è alzato ed è andato a prendere un volume rilegato con le sue sentenze. Mezz’ora dopo ero seduto con questo libro in mano e pensavo: «Questo è un sottogenere letterario, ingiustamente trascurato». Ho cominciato a interessarmi alle sentenze e ho notato che spesso c’è di mezzo la religione: cattolici che divorziano da musulmani, ebrei ortodossi che si contendono il futuro dei loro figli, genitori cattolici che non vogliono che i loro figli, gemelli siamesi, vengano separati. Poi mi sono imbattuto in una sentenza di Alan sul caso di un adolescente testimone di Geova che fiutava una trasfusione sanguigna necessaria per salvargli la vita. L’ho vista come una sfida, uno squarcio fra lo spirito laico della legge e una fede religiosa sincera.
Questa idea dei sistemi di credenze emerge in entrambi i vostri libri, quello che la gente è pronta a fare in nome delle credenze che ha costruito o elaborato.
MA: Sì, è un mondo di per sé, quello dei sistemi di credenze. Ian parla di religione, ma anche di ideologia. Anche se quello che ho scoperto leggendo moltissime cose sull’Olocausto negli ultimi venticinque anni è che, nel caso della Russia, l’ideologia è rimasta molto forte. Sono rimasto allibito quando ho letto che Gorbaciov, mentre l’impero si stava sgretolando, restava alzato tutta la notte a leggere Lenin dicendo: «La risposta dev’essere qui». Ma nel caso di Hitler, nel caso della Germania, non c’era nessuna ideologia. C’erano solo due o tre idee: un impero territoriale più ampio; un antisemitismo allucinatorio; e la semplice volontà di conservare il potere. Nient’altro. Le persone non erano attratte dal nazismo per la sua ideologia: era una sorta di chiamata a raccolta per sadici e non voleva essere altro che questo.
IM: Sì, quelle bandiere nere nel Nord dell’Iraq sono un altro esempio: sono un’eccezionale calamita per ogni aspirante torturatore in circolazione. Gli psicopatici sono un’esigua minoranza distribuita equamente fra tutte le popolazioni e hanno bisogno della loro occasione storica.
E perché i romanzieri ne sono attratti?
IM: Ci piacciono le cose sbagliate.
MA: Ed estreme. E i sistemi chiusi, le cose che sono un mondo a sé. Ma non trovi che, quando invecchi e il futuro si contrae, sia un tormento leggere anche solo le bozze del tuo ultimo romanzo?
Perché sentite il desiderio di passare alla cosa successiva?
MA: Semplicemente per andare avanti; non so se avete avuto un periodo del genere, ma ai vecchi tempi, negli anni Settanta e Ottanta, se non avevo appuntamenti o cose da fare per la serata, una bottiglia di vino e cinque ore di lettura per me erano una serata da sogno.
IM: Ora sono cinque bottiglie di vino e non leggi niente di tuo.
MA: Ma adesso non sogno di fare una cosa del genere. Anzi, leggere le cose vecchie non la trovo un’esperienza piacevole.
Perché ti senti un romanziere diverso?
MA: Si potrebbe dire che quello che succede è che l’ispirazione, la parte musicale del talento, si indebolisce, ma la parte tecnica si rafforza: sapere dove vanno le varie cose, la modulazione. Se fai una scena di dialogo, la scena successiva non dev’essere di dialogo, e viceversa. Quello che ho scritto in questo secolo non mi suscita quasi mai repulsione, ma se vado indietro è pieno di volgarità e roba immeritata.
Tu la pensi allo stesso modo, Ian?
IM: Io non guardo perché semplicemente non mi interessa.
Ma fra i tuoi primi lavori e quelli successivi ci sono differenze.
IM: In parte è perché siamo obbligati a spiegarci in continuazione, e questo alla fine ti rende insensibile rispetto alla tua opera. Una volta ho scritto un romanzo, Cani neri, in cui avevo messo una prefazione che spiegava tutti i temi del libro. E per tre mesi, per tutta la fase della promozione, sono stato a spiegare quella prefazione. Martin ha ragione, le estati e gli inverni che abbiamo davanti sono sempre di meno e c’è anche la sensazione che a un certo punto bisogna riconoscere che il tuo pensiero non è più ricco com’era un tempo.
MA: Il vocabolario si restringe.
IM: Il vocabolario si restringe; si restringe… tutto. Anche la resistenza fisica! Per fare un romanzo ci vuole parecchia resistenza fisica, sembra una maratona. Dura più o meno quanto una laurea universitaria, e noi abbiamo quattordici lauree. Ma no, l’idea di mettermi in un angolo a rileggere i miei primi libri mi inorridirebbe, specialmente considerando che sugli scaffali della mia libreria stanno in attesa non solo tutti i libri che non ho letto, ma tutti i libri che voglio rileggere, di altri scrittori.
C’è un libro dell’altro che vorreste aver scritto voi?
IM: La tecnica sopraffina di Martin in Esperienza mi suscita grande ammirazione. Ha riversato nell’autobiografia tutta l’arte del romanziere. Ha escogitato il modo più ingegnoso e perspicace di parlare del passato, della famiglia.
MA: È molto gentile da parte tua, ma non avresti voluto scrivere Esperienza, perché non sei stato il figlio di Kingsley Amis. No, secondo me nessun romanziere che si senta minimamente sicuro di sé vorrebbe scrivere il romanzo di qualcun altro. Il saggio di qualcun altro magari sì, posso immaginare che si provi invidia, desiderio. Ma un romanzo no, è qualcosa di troppo personale. Quello che la gente non riesce proprio a capire è che quando scrivi un romanzo metti te stesso in prima linea; se fai un saggio storico sul bombardamento di Dresda non è la stessa cosa. Un romanzo è profondamente personale e rivelatore.
Trascrizione revisionata di una conversazione svoltasi il 2-8 agosto per il Vintage Podcast. Per ascoltare la registrazione completa potete visitare il sito: www. soundcloud. com/vintagebookspodcast ( Traduzione di Fabio Galimberti)
Alex Clark, la Repubblica 24/9/2014