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 2014  settembre 24 Mercoledì calendario

LA SPIA E LA JIHAD


Il tavolo, solitario, è su una radura rocciosa rischiarata da un’incongrua luna piena.
Prendo appunti a lume di candela; un cameriere ci serve del tè e alla sua comparsa l’uomo si fa muto. Ha trent’anni ed è minuto e quando parla di quel che faceva, fino a ieri, il volto rivela un ghigno astuto.
Egli è un agente pentito del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi o, per essere più precisi, un ex ufficiale dei servizi segreti dello Stato islamico dell’Iraq e della Siria: l’Isis.
Fino a questa estate se ne andava in giro per la sua città, Raqqa, la capitale del Califfato, vestito d’ordinanza: barba e camicione, maschera in viso, kalashnikov in spalla, esplosivo in vita.
«Amavo il mio lavoro», dice. «Lo amavo così tanto da dormire la notte con la mia cintura kamikaze. Quella vera, non come alcuni miei colleghi che vanno in giro con quella falsa».
Lo incontro grazie ai buoni uffici di un amico siriano in una località della Turchia che ho promesso di non rivelare. Lo ascolto per una notte intera mentre Barack Obama annuncia all’America che sta per bombardare la sua città e la Siria.
È una notte vecchia millenni, popolata da emiri e boia e intrighi e ostaggi e segreti, e quando è finita mi riprometto di non guardare più la serie tv Trono di Spade. Chi ne ha bisogno? I vessilli neri del Medioevo garriscono al vento a Tal Abyad e a Jarabulus, visibili dalla Turchia, Paese Nato.

Abu Ali sa quel che vuole: imbracciare il fucile.
L’unico dubbio è di chi fidarsi, a quale formazione affidare la sua mira. Ha amici in un gruppo moderato, dal nome nobile: Ahrar ash-Sham, i Liberi del Levante, ma capisce subito che non faranno strada. Hanno riluttanti sponsor occidentali, scarse risorse, poche armi. Esplora gli islamisti di Jabhat al-Nusra, il Fronte del sostegno, in pratica Al Qaeda, e sale su un altro pianeta. Le cose funzionano, i soldi circolano, i cannoni arrivano dall’Iraq.
Nel gennaio del 2013, i barbuti aprono un paio di campi di addestramento ad Aleppo, uno per le spie e l’altro per la fanteria. «Vengo scelto per le forze della Sicurezza», dice Abu Ali, fiero.
Il leader del Fronte è un islamista siriano, di nome Abu Mohammad al-Jolani. Mi viene in mente, ascoltando il nostro uomo, che gli islamisti in posizioni di leadership sono stati tutti prigionieri politici, torturati quotidianamente, per anni, nelle prigioni di Saddam Hussein in Iraq e degli Assad in Siria. Hanno tutti intimamente sperimentato la disumanizzazione sistematica dei Mukhabarat, i servizi segreti, il loro modus operandi. Si sono specchiati a lungo nel mostro arabo, e mostri sono diventati.

«Gli informatori che abbiamo piantato dentro l’Esercito Libero hanno fatto carriera in fretta: gli davamo informazioni sul nostro conto da fornire al nemico infiltrato. Abbiamo posizionato nostre
spie in tutti i gruppi. Al punto che il capo dei servizi di intelligence di Ahrar ash-Sham è un uomo di al-Nusra».
(Il nostro incontro avviene la notte tra l’8 e il 9 settembre. Il pomeriggio del 9 settembre si diffonde una notizia e mi viene un brivido: l’intero comando di Ahrar ash-Sham, composto da 50 comandanti, radunato in segreto conclave a Binnish, un villaggio nella provincia di Idlib, viene misteriosamente sterminato in quel che pare un attacco chimico. Ahrar ash-Sham era uno dei gruppi papabili a trarre beneficio dalla svolta americana, un potenziale ferale avversario del Califfato).

È, in qualche modo, una rimpatriata: tanti barbuti siriani si sono fatti le ossa oltre l’Eufrate, nei dintorni di Falluja, e la fusione sembra un processo naturale, un matrimonio in famiglia, consolidato in battaglia e suggellato dalla benedizione di Ayman al-Zawahiri, l’erede di Osama bin Laden alla guida di Al Qaeda.
Non erano forse tutti fratelli in jihad?
Abu Ali chiede lumi a un turbante, e il saudita gli risponde: «L’Isis è il cuore, Nusra un braccio».
Il cuore dell’Isis è, in effetti, strabiliante. Gli iracheni hanno forze eterogenee a loro modo straordinarie: ingegneri, agronomi, amministratori, filmmaker, e puri geni del male. Il capo dei servizi informatici è il miglior hacker d’Egitto, uno sul cui capo pende una taglia da cinque milioni di dollari dell’Fbi.
Si chiama Abdullah Ahmed Abdullah, detto Abdullah el Masri, un tizio spietato e scaltro che, approdato a Raqqa, si dedica prontamente alla bonifica dei suoi attivisti laici.
Crea pagine false su Facebook a sostegno dell’Esercito Libero per identificare gli oppositori dell’Isis. «Manda loro messaggi, che una volta visualizzati attivano il gps». Così sono state localizzate e arrestate e giustiziate dozzine di dissidenti, e oggi a piazza Naim, la piazza del Paradiso, la piazza dei crocifissi, non rimane più viva una sola voce libera.

Mese dopo mese, si delinea la nuova classe dirigente, una creatura curiosa, il peggio del mondo, il meglio del male.
Gli iracheni sono i leader, i tunisini e i ceceni i comandanti militari, i sauditi i magistrati e i kamikaze, gli uzbeki e i kazaki la soldataglia, gli inglesi i principali addetti alla propaganda destinata al mercato occidentale.
Abu Ali non ha problemi con i metodi dell’Isis e si unisce entusiasta alle sue brigate. Lo fa il 90 per cento dei soldati di Nusra, tutti in fila a giurare lealtà a Baghdadi.
Per aver diritto alle cinture esplosive e al kalashnikov, al tesserino e alle maschere, è previsto un rituale. Ricorda i voti dei mafiosi: «Si esegue al cospetto di uno sheikh», spiega Abu Ali. «Gli stringi la mano e ripeti: giuro di seguire l’Isis nella buona e nella cattiva sorte e di ubbidire qualsiasi cosa accada. Giuro di accettare le sue decisioni e di non discuterle mai, a meno che esse non siano contrarie alla volontà di Allah».

Le decapitazioni non gli fanno effetto: «Sono nel Corano». Ammette le torture: «Appendevamo la gente per i piedi». Ha un problema pratico con le crocifissioni: «Sono uno spreco. Meglio una pallottola nel cranio».
A dargli fastidio è la discriminazione. Perché i comandanti ceceni e tunisini ed egiziani hanno diritto alle auto e alle ville e alle mogli, e lui a così poco? Il salario base di un siriano è magro, 40 dollari al mese, che diventano 80 se hai moglie. Ci sono, certo, i bonus: se arresti o rapisci qualcuno e la preda è buona possono darti un extra di 100 dollari. Poi ci sono i figli: l’Isis concede 20 dollari a erede, l’Isis incoraggia la riproduzione, l’Isis considera la prole la generazione futura della jihad: «Ci sono campi per bambini, dai sette anni in su».
Di campi, in realtà, nei dintorni di Raqqa, a 80 chilometri dalla Turchia, ce ne sono diversi. «C’è una fabbrica di cinture esplosive, e ci sono cinque fattorie – una di donne - con venti kamikaze ciascuna».
La mia impressione è che anche questo gli sarebbe scivolato addosso, se i nuovi padroni di Raqqa non avessero congelato le loro truppe siriane, e non si fossero dedicati con particolare accanimento alla eliminazione di tutti i rivali.
Abu Ali resta quando l’emiro di Nusra, Jolani, si dissocia dall’Isis, e così anche il leader di Al Qaeda Zawahiri. Abu Ali non si muove quando l’Isis, in una notte sola, il 20 gennaio 2014, mette a profitto le spie, e scaccia gli altri gruppi da Raqqa e gli altri gruppi dichiarano guerra agli stranieri.
È solo quando gli tolgono il lavoro che nota la violenza pulp, l’amministrazione metodica del terrore.
Gli ammazzamenti, le gare di velocità per arrivare prima, in auto, sul luogo di un arresto, poiché chi prima arriva taglia la gola. I corpi gettati nei burroni, le teste impalate nelle piazze principali. Ma che cosa fare? Le spie, le spie, sono dappertutto. Un giorno, in prigione, vede in cella un cumulo di vestiti.
No, aspetta, si muovono. Era viola, era putrida, era viscida, era una persona. Un suo compagno di scuola! Un curdo. Lo avevano appeso un mese a testa in giù.
Centinaia di ribelli, tra cui amici suoi, si arrendono in cambio di promesse di salvezza: l’Isis prende le armi e li fa fuori.
Abu Ali va dallo sheikh saudita e gliene chiede conto. Il magistrato risponde: «Per dimostrare l’autorità, devi far rispettare la legge. E per far rispettare la legge, devi applicare le punizioni».
Le sue domande provocano rumore. Abu Ali non è contento. Abu Ali è amico dei nemici. Abu Ali viene mandato al fronte a Deir ez-Zor. Abu Ali viene frustato 70 volte per aver espresso il desiderio di una bestemmia. Un suo amico, addetto alla soppressione fisica del dissenso, lo va a trovare e gli dice: «Ho sentito via radio la tua condanna a morte». Ora che ha fatto il salto, e vive braccato dal mostro in cui si sono specchiati i servizi segreti del mondo arabo che il Califfato ha imitato, l’ex agente esprime rammarico: «Ho sbagliato. Ma non voglio che Obama bombardi. Ci sono oggi a Raqqa ottomila soldati, metà diserteranno, lo posso garantire. Però ci sono almeno 300 civili innocenti in prigione. Moriranno».

Gli chiedo di Padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita sequestrato il 29 luglio 2013. «È vivo», dice.
Gli chiedo perché non lo abbiano liberato. L’Italia paga.
«Stavamo per scambiarlo con un saudita detenuto in Arabia. Ma Baghdadi ha capito quanto sia importante per il Vaticano e ha deciso di tenerlo. L’Isis ama le sorprese. Prima o poi sapranno che cosa farne».
Gli chiedo, infine, come ci si libera del Califfato.
«È impossibile liberarsene totalmente. L’ideologia resterà. Alcuni civili, qui in Turchia, dicono: se l’America bombarda l’Isis, noi sosteniamo l’Isis. È questo il problema: i musulmani che non ci hanno mai vissuto dentro».