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 2014  settembre 24 Mercoledì calendario

INTERVISTA A CAPOSSELA


Una stazione dismessa è spettacolo doloroso, i binari incrostati di ruggine, l’erba bruciata dal sole, gli altoparlanti spenti. Quando Vinicio Capossela da bambino passava l’agosto a Calitri, i vagoni della linea Avellino-Rocchetta sferragliavano nel silenzio della campagna, lo stesso che lui oggi è tornato a riempire di musica con lo Sponz Fest in Alta Irpinia. Nove paesi, nove vecchie stazioni. È a Calitri che i genitori si sono sposati, e ora tengono in giardino il suo camper, che è «come la Cappella Sistina: non si smette mai di lavorarci». Faremo lì l’intervista. Poi si riavvicinerà, alle tre del mattino, sulla banchina abbandonata di Conza della Campania. Calciando il brecciolino della ferrovia che «unì la popolazione più dell’alfabeto», avanzerà tra le balle di fieno, lasciandosi alle spalle Micaela, la fidanzata che balla sola e combatte il freddo con una coperta. «Questi paesi intorno, arroccati sulle colline, non sembrano costellazioni?», svia da sotto il cappello che porta, nonostante il buio. «Lo tolgo solo per dormire».

Perché?
«Protegge dalla dispersione dei pensieri».
Suo padre faceva l’operaio, fu migrante: per questo ama i treni?
«Tanto da scegliere di abitare vicino a un monumento dell’assenza come la Stazione Centrale di Milano. Mi hanno sempre incantato i convogli. Cucivano i territori. Non c’era mai posto a sedere, e io mi mettevo negli interspazi tra i vagoni, dove il rumore del ferro si triplicava. I treni sono filo costitutivo di unione e separazione già dall’etimologia latina, trahere è tirare, e greca, threnos è lamento funebre».
Ha fatto il liceo classico?
«No. Ma ho compreso che se sai nominare una cosa, sai pure spiegartela».
Ne ha persi di treni, nella vita?
«Sì, correndogli dietro. Ma ho anche goduto dell’attesa, una delle sospensioni più perfette: gravide di rischio e di paralisi».
Raccontano che abbia aspettato la sua donna che tornava a tarda sera a Milano in testa al binario, con una stellina scintillante in mano.
«Possibile. Poi quando si cresce e si hanno quasi 50 anni si fa spazio in noi un oscuro sentimento di destinazione finale, impercettibile da giovani».
Come vorrebbe fosse il suo epitaffio?
«Sono morto tante volte, ma mai così».
È morto tante volte?
«Baudelaire diceva che ci sono uomini che portano con sé questa sensazione d’estinzione, come il prete la Bibbia. Io sono uno di quelli».
Da ragazzino per dichiararsi scriveva cartoline.
«Mezzo più impudico di Facebook. C’erano raffigurati due innamorati, e sotto: “Non vivo senza te”, “Sei mia”. Ti toglievano già il pensiero di che cosa comunicare. Io qualcosa l’aggiungevo sempre. Ma alla fine non le spedivo mai».
Lo Sponz Fest onora lo sposalizio.
«Rito fondante della comunità. Si beve e si balla e ci si “spronza”. Si perde la rigidità dei ruoli, la forma. Le distinzioni sociali si vanificano, e deve succedere un po’ come allo stadio che non frequento: si è tutti la morte, la malattia, il riso, la festa».
Lei una volta ha detto sì. A una modella americana.
«Il matrimonio è quello che inizia dopo, quando si chiudono i battenti e si rimane soli nella carne, diceva Bergman, una questione impegnativa tra due persone. Che può andare male».
L’ha capito poi, Che coss’è l’amor?
«La più grande fonte di malintesi tra persone. Un centro del tifone, quieto e tutto intorno il putiferio».
Beve molto?
«Il mio stesso nome, Vinicio, mi fa amico del vino. Mio nonno portava quello della sua vigna ai ritrovi come fosse latte. È un accesso a noi stessi e, come il sesso, ai lati più profondi della nostra natura. Conta saperlo dominare. I barbari erano tali perché non ne erano capaci, Ulisse vince su Polifemo perché ne è padrone. Certo, quando si prende il mare, bisogna avere un’imbarcazione che sappia reggere».
Lei ce l’ha?
«Ho rischiato la zattera malconcia, ma oggi sì».
C’è chi sostiene che senza alcol lei e De André avreste fatto verosimilmente un altro mestiere.
«Tanti ubriachi cronici non hanno tirato giù una riga. Saper scrivere conforta. Dovremmo avere più cura del tempo della festa. L’uomo si è distinto dall’animale per senso dell’utile, e ragionamento in prospettiva: se appuntisco la pietra, diventa una lancia, e posso cacciare. Il gioco è rottura sacra del causa-effetto, è liberatorio, rimette in contatto con Dio. Se ci si stona, non per forza ci si abbrutisce».
Sa lavorare la terra?
«Purtroppo no, solo attraversarla. Canto in giro per l’Europa con la Banda della Posta che accompagnò il matrimonio dei miei. Ma io sono afflitto dal ritorno. Come nell’Odissea, arrivo qui che non sono più quello che ero quando sono partito, portandomi dentro quei bagliori che si formano nell’infanzia. Da allora Itaca la troveremo per frammenti nel viaggio, mai più tutta insieme».
Infatti lì fuori giocano a rincorrersi i suoi nipoti, tra gli alberi da frutto.
«I bambini sono straordinari».
Le spiace non averne fatti?
«Bisognerebbe ascoltare dove può andare e dove no il proprio essere. Ho imparato a comprendere l’armonia delle mie contraddizioni. Io l’ho battezzato, il demone che ho dentro».