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 2014  settembre 24 Mercoledì calendario

LO PSICODRAMMA DEI MAGISTRATI: «ORMAI LA GENTE SE NE FREGA DI NOI» [2

pezzi] –

O rmai pensano che la gente li odi. O che, nel migliore dei casi, li disprezzi, li senta lontani, se ne freghi di loro. Per i giudici italiani la giustizia dell’era Renzi coincide con una crisi di identità senza precedenti. Una categoria che per vent’anni si è specchiata nella sua immagine riflessa nel sostegno popolare, con i girotondi intorno ai palazzi di giustizia a sostegno della crociata contro Berlusconi, si ritrova improvvisamente attaccata, vilipesa, divisa al proprio interno. E di fronte non c’è l’eterno arcinenico, ormai familiare nelle sue forze e nelle sue debolezze, ma un nemico nuovo, giovane, apparentemente invulnerabile agli strumenti consueti. Per dirla tutta: se oggi un Borrelli redivivo lanciasse contro Matteo Renzi la sfida del «resistere, resistere, resistere» invece che scuotere le coscienze di una nazione ricadrebbe nel vuoto, come spesso accade all’arma della retorica quando si trova a fare a botte con quella del dileggio, incarnata da quel «brrr... che paura» con cui Renzi ha superato in tre parole tutte le asprezze inanellate dal Cavaliere contro le toghe in questi vent’anni di trincea.
Per capire davvero cosa stia accadendo nei rapporti tra giustizia e potere politico bisogna tenere gli occhi un po’ strabici, insieme sull’oggi e sul passato. Del passato fa parte la lucida profezia di Francesco Greco, il pm del pool Mani Pulite che nel 1997 finì sotto procedimento disciplinare - a Palazzo Chigi c’era Romano Prodi, il ministro era Giovanni Maria Flick - per avere detto fuori dai denti «non mi metto a piangere se è la sinistra a fare quello che neanche a Craxi era riuscito». Ma poi ci vuole un occhio anche sull’oggi, di cui il ritratto migliore sono le centinaia e centinaia di messaggi che agitano quei corridoi virtuali che sono le correnti della magistratura. E dove è ancora forte l’indignazione di chi ritiene di trovarsi di fronte, nel Patto del Nazareno Renzi-Berlusconi, a una riedizione strisciante della Bicamerale, a un grande complotto trasversale della politica per fare finalmente i conti con lo strapotere mai accettato della magistratura. Ma, accanto a questa lettura «alta», c’è la sensazione - ben più angosciante - di chi sente rivoltare contro di sé l’antipatia dell’uomo comune e si vede additato come casta. Di chi, insomma, vede svanire la propria figura di eroe sociale per ritrovarsi nei panni del giudice di Fabrizio De André, quello che suscita lo sghignazzo popolare se il gorilla lo trascina per un orecchio in un prato.
E, forse, conviene partire da qui, perché è qui, nella scoperta dell’improvviso fossato tra il proprio orgoglio e il comune sentire, che la magistratura oggi mostra più vistose le proprie divisioni. Certo, ci sono anche gli increduli, quelli per cui l’acquiescenza degli italiani di fronte alla svolta renziana può essere figlia solo della disinformazione. Scrive il giudice Alberto Avenoso: «Perché non fare un’azione eclatante comprando una pagina di un grande quotidiano e esponendo analiticamente tutte le argomentazioni, i fatti, le circostanze?». E la sua collega Caterina Mazzitelli: «Si tratta di parlare apertamente del nostro lavoro, con un linguaggio semplice e accessibile a tutti... Esiste un’opinione pubblica fatta anche di buon senso e di buone cose, anche di buoni sentimenti». Pie illusioni su cui cala il gelo di un altro giudice, Sergio Palmieri: «La gente non è stupida, ma semplicemente se ne stracatafotte dei nostri problemi. La gente vuole il sangue della casta e noi siamo identificati come la casta. Nessuna spiegazione al mondo farà loro cambiare idea. Lo sanno come stanno le cose, ma vogliono che soffri (sic) pure tu come loro».
Ecco, la svolta è qui, nella mail di Palmieri. «La gente se ne stracatafotte». Addio girotondi, agende rosse, popoli viola. La mostruosa abilità comunicativa del capo del governo, le bombe mediatiche sugli stipendi da 240mila euro e i 45 giorni di ferie hanno aperto una breccia senza ritorno. Di questo, tranne pochi illusi irriducibili, ormai i magistrati sono consapevoli. Ma è sul come reagire che la frattura è vistosa. Ci sono quelli che si rendono conto che certi privilegi sono antistorici: «Nel terzo millennio e nelle condizioni attuali - scrive Marco Patarnello - non è possibile difendere la sospensione dei termini processuali dal primo agosto al 15 settembre. Difenderla o dare l’impressione di difenderla è stato un suicidio mediatico». Ma su questa minoranza di realisti piombano critiche, sarcasmi, accuse di opportunismo, «anime candide ed umili sempre pronte alla pubblica disponibilità alla rinuncia e a vergognarsi, sovente, del nulla». La maggioranza difende lo status a spada tratta. Visto che la gente ci odia, allora tanto vale che badiamo ai nostri interessi, come scrive Antonio Salvati: «Non dobbiamo temere di apparire dei fannulloni privilegiati. Ci vedono già così». E c’è anzi chi rivendica lo status come se fosse il tratto riconoscibile, l’uniforme del proprio potere: come Massimiliano Siddi, che se la prende con la «rancorosa e livida invidia sociale» del «popolo bue», e scrive testualmente: «A ogni livello e in qualsiasi epoca, il rango farà sempre parte del potere e il popolo guarda con diffidenza e incredulità a un potere che non pretende il rango che gli appartiene». Senza i benefit saremmo comuni mortali.
Questo è l’oggi, e solo i prossimi mesi diranno quale animo prevarrà nel corpo diviso e multiforme della magistratura italiana. Se il realismo (che oggi qualcuno liquida come «autoflagellazione») prevarrà, e magari troverà buona sponda in quel gusto del quieto vivere che per i primi cinquant’anni di Repubblica ha accompagnato le toghe italiane; o se uno scontro frontale, a suon di comunicati stampa e avvisi di garanzia, metterà fine alla pratica. Ma anche per avere qualche idea sull’esito bisogna tenere aperto l’altro occhio, quello sul passato: che aiuta a capire la genesi di questo inedito bailamme, e a riconoscerne gli ingredienti.



I MAGISTRATI ALLO SBANDO E QUELLA PROFEZIA DI GRECO [Del 25 settembre 2014] –

«Non parlo di politica», dice oggi Francesco Greco, procuratore aggiunto della Repubblica, se gli si chiede di ritornare sulla sua profezia di diciassette anni fa, quando disse che sarebbe stata la sinistra a fare ai giudici ciò che la destra non aveva saputo fare. Che le cose stiano andando esattamente come aveva previsto, non lo rallegra. Semmai lo stupisce il ritardo con cui il «primato della politica» (per usare una espressione cara a Massimo D’Alema) sta riprendendo il sopravvento. Ma d’altronde per un pezzo c’è stata da fare la crociata a Berlusconi che ha reso intoccabili i magistrati, e ne sanno qualcosa Giovanni Maria Flick e Clemente Mastella, ministri ulivisti della Giustizia, che dai tentativi di caute riforme uscirono con le ossa rotte. Ne sa qualcosa D’Alema, che per essersi seduto al tavolo con Berlusconi si prese sui denti un’intervista di Gherardo Colombo in cui il pm milanese accusava la Bicamerale di essere «figlia del ricatto», e la Bicamerale finì lì; e ne sa qualcosa, giova ricordarlo, anche Giorgio Napolitano, allora ministro dell’Interno del governo Prodi, che all’indomani dell’intervista di Colombo se ne buscò un’altra di Ilda Boccassini che lo accusava di impedire la lotta alla mafia portando a compimento i progetti della destra, e lo paragonava nientemeno che a Antonino Meli, il magistrato palermitano che aveva smantellato il pool di Falcone. Il ministro Flick mise Colombo e la Boccassini sotto procedimento disciplinare: «E naturalmente - ricorda oggi Flick - il procedimento finì in niente. D’altronde proprio sulla riforma del sistema disciplinare le mie riforme avevano incontrato l’opposizione più decisa da parte dell’Associazione magistrati».
La sinistra capì l’antifona, e la riforma della giustizia si inabissò insieme alla Bicamerale. Ora sono passati diciassette anni, e sono stati gli anni della supplenza in toga, dei ribaltoni per via giudiziaria. Ma ora che la pratica di Silvio Berlusconi nelle aule di tribunale è arrivata a compimento - condanna definitiva, espulsione dal Parlamento, eccetera - né la sinistra né il popolo si mostrano riconoscenti verso i magistrati. Anzi, paradossalmente: le avvisaglie dello scontro finale arrivano mentre l’ex grande nemico Berlusconi è quasi sparito dalla ribalta della polemica con i giudici, come se la condanna per i diritti tv appartenesse a un altra era (ed è invece di appena un anno fa!), e la nuova quotidianità del Cavaliere fosse fatta solo di assoluzioni per il caso Ruby, dialoghi con i vecchietti, divorzi meno onerosi. Da mesi, da Arcore, non viene una sola parola contro i magistrati. Tra un mese, d’altronde, il giudice Beatrice Crosti esaminerà la richiesta del Cavaliere di uno sconto di pena che avvicinerebbe a portata di mano anche la fine della corvée a Cesano Boscone: e quindi una certa inclinazione dell’ex premier a tenere basso il profilo della polemica è comprensibile. Ma solo Silvio Berlusconi sa quanta ammirazione e forse invidia suscitino nel chiuso del suo animo le mosse di Renzi sul fronte della giustizia: anche in questo campo vale ciò che il Cavaliere ama dire del presidente del Consiglio, «è come me, ma più cattivo».
Lui, Renzi, sembra viaggiare spedito per la sua strada, e c’è da sperare per lui che abbia chiara in mente la determinatezza dell’avversario. Ha scelto un bersaglio-feticcio, le ferie spropositate dei magistrati, intuendo che su quello era facile creare consenso, ben sapendo che è una battaglia più simbolica che sostanziale; ma intanto ha messo a segno senza grandi clamori un colpo ben più concreto, estromettendo dagli alti gradi della magistratura non solo i settantenni ma anche di fatto gli over 66, e aprendo così la guida degli uffici giudiziari a una nuova generazione di capi, che anche a lui dovranno gli avanzamenti di carriera. È una mossa con effetti diabolici: tanto per dare un esempio, impedirà per una manciata di giorni a Ilda Boccassini di candidarsi alla Procura di Milano quando, alla fine del prossimo anno, la carica verrà lasciata libera dal suo attuale titolare, Edmondo Bruti Liberati. E insieme alla Boccassini viene avviata senza riguardi a fine carriera una intera generazione di toghe che oggi sono il cuore pensante della magistratura italiana, e che verranno inghiottite da un gigantesco spoil system. Sono gli uomini e le donne che oggi guidano le procure, i tribunali, le correnti, e che Renzi ha bruscamente rottamato. La reazione è il borbottio che anima le mailing list delle correnti, e dal quale a volte si leva una voce più alta: ma la magistratura italiana è priva di un leader mediatico carismatico, una faccia in grado di rivolgersi al paese come furono in modi radicalmente diversi Borrelli e Di Pietro; la recente, catastrofica parabola di Antonio Ingroia è sintomatica della fine di questa stagione; e la pubblica violenza delle faide interne alla Procura di Milano, totalmente incomprensibili all’uomo della strada, ha compiuto il disastro.
Come andrà a finire lo scontro tra Renzi e i giudici non si sa, e ogni giorno, o quasi, avrà la sua puntata. Non sarà un pranzo di gala, e se le avvisaglie di queste settimane - con gli avvisi di garanzia che piovono sui compagni, gli alleati e persino i parenti del premier - manterranno ciò che promettono, i magistrati non si lasceranno sfrattare senza combattere. Qualunque sia l’esito, una cosa è certa: nulla sarà più come prima. Perché, come dice il giudice Palmieri, ormai «la gente di noi se ne stracatafotte».
(2. Fine)