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 2014  settembre 24 Mercoledì calendario

BRINDISI, CRAVATTE E CAMICIE NERE. I FANTASMI CHE AGITANO IL NORD EUROPA

Domenica 14 settembre il signor Anders Robert ha compiuto 95 anni: festeggiamenti con una trentina di parenti e amici al Gastgifvaregard, antico ristorante di Sjöbo, un villaggio di seimila abitanti nel Sud della Svezia. Campi di patate, di foraggio. Villette di mattoni rossi a un piano con la bandiera nazionale piantata in giardino. In questo distretto, nelle elezioni del 15 settembre, gli Sverigedemocraterna, i Democratici svedesi, sono arrivati fino al 30% dei voti. Il loro leader, il trentacinquenne Jimmie Akesson, vuole ridurre del 90% l’immigrazione e tagliare il più possibile il miliardo di euro stanziato per l’accoglienza in bilancio statale che di miliardi ne conta 100. Il signor Robert, però, ha votato «per la socialdemocrazia», come ha sempre fatto dal dopoguerra in avanti. Ora il suo problema, quello di sua figlia Elizabeth, dei nipoti che lo guardano mentre, in abito scuro e cravatta bordeaux, brinda «al futuro della Svezia» è capire se bisogna davvero preoccuparsi o se «passerà anche questa volta», come è successo per il collaborazionismo con i nazisti o il referendum anti-immigrati indetto nel 1986 in questa circoscrizione.
Stefan Löfven, il segretario dei socialdemocratici, ha scalzato il premier moderato Fredrik Reinfeldt, ma non riesce a formare il governo, perché quel 12,9% di consensi raccolto a livello nazionale dai Democratici svedesi blocca il gioco delle alleanze. Per il momento tutte le forze politiche tradizionali rifiutano non solo un accordo, ma anche il semplice confronto con i populisti. E così il problema del signor Robert è anche il problema di Löfven, della Svezia (9,5 milioni di abitanti), dell’Unione Europea.
Sabato mattina, 13 settembre. Il signor Michael Mortensen, 53 anni, manager di una società hi-tech, si rilassa passeggiando nel parco di Aarhus, città portuale nella penisola di Jutland, Danimarca centrale. Dice che nel passato il suo Paese è stato il più aperto in Europa, ma ora questa condizione non è più «economicamente sostenibile». E allora anche lui, vecchio liberaldemocratico, appoggia la linea politica del Dansk Folkeparti, il Partito danese del popolo, che alle europee ha conquistato il primo posto con il 26,6%, staccando di sette punti i socialdemocratici al potere e di dieci i liberali. In Danimarca si vota tra un anno, ma la campagna è già cominciata. Il candidato da battere non è la premier socialdemocratica, Helle Thorning-Schmidt, bensì Kristian Thulesen Dahl, 45 anni, capo del Folkeparti, subentrato nel settembre 2012 alla fondatrice Pia Kjaersgaard. Le forze populiste del Nord Europa non sono più outsider fastidiosi, ma in definitiva irrilevanti. Ormai da tempo si sono liberate delle ferraglie neonaziste delle origini che risalgono agli anni Novanta. Rimangono tracce, comunque inquietanti, di raduni e camicie nere, specie nelle organizzazioni giovanili, in Svezia soprattutto. Ma il processo di dialisi politica è ormai completato in tutta la Scandinavia. In Norvegia il Partito del Progresso, lo stesso cui aderiva lo stragista Anders Breivik, adesso fa parte della coalizione di governo con i conservatori. La sua leader, Siv Jensen, 45 anni, è anche ministro delle Finanze e da lì insidia il bacino elettorale degli alleati. In Finlandia, i Perrussuomalaiset, i Veri finlandesi guidati da Timo Soini, 52 anni, sono il terzo partito con il 13% e stanno erodendo i consensi dei socialdemocratici. Il Dansk Folkeparti, pur restando sempre all’opposizione, condiziona dal 2001 le priorità in tema di immigrazione fissate dagli esecutivi liberaldemocratici. Tanto che oggi la legislazione danese in materia è tra le più spigolose d’Europa. Qualche esempio: età minima (24 anni) per sposare il partner extra comunitario; ostacoli enormi per il ricongiungimento familiare e così via. Ma anche i socialdemocratici si stanno riposizionando. Venerdì 12 settembre il governo di Thorning-Schmidt ha annunciato una clamorosa restrizione del diritto d’asilo rispetto agli standard delle socialdemocrazie scandinave: solo un anno di permanenza e poi, se ci sono le condizioni di sicurezza, i rifugiati potrebbero essere rispediti nei Paesi di provenienza.
I costi di almeno venti-trent’anni di apertura praticamente incondizionata cominciano a pesare anche per queste economie solide e dinamiche. Il welfare, lo Stato sociale svedese, assegna circa mille euro al mese ai disoccupati e altri 400 per pagare l’affitto di una casa popolare, senza fare distinzione tra cittadini e immigrati. Il sistema danese ora è un po’ meno generoso. In ogni caso le municipalità coprono le spese di luce, telefono e canone tv per chi resta senza lavoro, stranieri compresi. In realtà, come nota Peter Helvig, studioso dell’immigrazione all’università di Aalborg, Nord della Danimarca, è difficile valutare esattamente benefici e perdite collegate ai flussi migratori. Ma i populisti nordici spezzano in due ciò che dovrebbe rimanere unito, come la partita doppia (entrate e uscite) di un’azienda. È un’operazione già vista altrove e che trova condizioni particolarmente favorevoli nell’habitat scandinavo.
Quattro giorni di viaggio per rendersene conto: 493 chilometri, da Aalborg, estremo Nord della Danimarca a Sjöbo, Svezia meridionale, con tappe ad Aarhus e Malmö. Il paesaggio economico racconta anche qui le sofferenze dei vecchi complessi industriali. Ad Aalborg, di fatto, restano solo i cementifici, obsoleti e inquinanti, mentre i cantieri navali sono stati venduti ai coreani o smantellati, così come accaduto a Malmö. L’agricoltura intensiva tiene, ma ad Aarhus si capisce come la ricchezza sia concentrata nella produzione di tecnologia e nei servizi più sofisticati. La massa degli immigrati preme sulla base della piramide, l’antica manifattura, oppure sul terziario più elementare (le imprese di pulizie o di trasporto). Il numero uno del Dansk Folkeparti, Thulesen Dahl, osserva Susi Meret, ricercatrice italiana specializzata in studi sulla «migrazione e diversità» nell’università di Aalborg, si propone di impersonare la trasformazione danese. Si è laureato in Economia ad Aalborg, l’università più innovativa e sperimentale del Paese. È entrato molto presto in politica, iscrivendosi prima al Partito del Progresso, una formazione anti-tasse degli anni Ottanta, poi seguendo nel Folkeparti Pia Kjaersgaard, 67 anni. Due anni fa la fondatrice, figura storica del populismo danese, passò la mano a Thulesen Dahl. Nel corso della campagna elettorale per le Europee il nuovo leader si è fatto fotografare con un primo piano fin troppo rassicurante e lo slogan «Sicurezza e fiducia: si può». Le gigantografie dominano, incontrastate, le piccole stazioni ferroviarie che scendono lungo la penisola dello Jutland e poi fino a Nyborg, a Slagelse, a Ringsted, nelle due grandi isole. Tutto bene finché il treno non sbuca nella periferia di Copenhagen, dove qualcuno ha disegnato un paio di baffetti alla Hitler sul labbro perfettamente rasato di Thulesen Dahl. Un modo rozzo e sbrigativo per cogliere, però, un punto. Se fosse solo una questione economica, di manutenzione del bilancio pubblico, liberali e socialdemocratici avrebbero gli strumenti tecnici per correggere le storture del welfare, togliendo spazio alle nuove forze. Evidentemente c’è dell’altro. Le cifre lasciano spazio alle passioni, ai sentimenti e soprattutto ai pregiudizi del territorio. I populisti danesi si scagliano contro «le gang criminali» formate da immigrati lituani ed estoni, indicandoli come un pericolo per la tranquillità dei cittadini pacifici e operosi. Resiste inoltre, in modo particolare in Svezia, l’allergia all’Islam di importazione. Malmö, spiega Anders Hellstrom, 38 anni, professore aggiunto di Scienze politiche all’Università locale, è la città frontiera in questo momento: 270 mila abitanti, 164 nazionalità, cento lingue diverse. L’opinione pubblica è divisa, ma anche qui, nel Sud della Svezia, la maggioranza continua a difendere il modello di società aperta, disponibile all’accoglienza e all’integrazione. Nelle ultime europee molti elettori di Malmö hanno scritto sulla scheda il nome di Zlatan Ibrahimovic, stella del calcio mondiale, cresciuto nel quartiere di Rosengard, dove erano approdati i genitori bosniaci. A Sjöbo, cinquanta chilometri più a Ovest, i simpatizzanti dei Democratici svedesi, invece, si mimetizzano, sfuggono. Per ora non vogliono esporsi. Anche se tra loro i nostalgici di un’epoca solitaria e felice, forse, sono più numerosi dei razzisti.