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 2014  settembre 23 Martedì calendario

YAHOO! E I SUOI FRATELLI, COLOSSI E POCHE TASSE

C’è da augurarsi che nel suo giro in Silicon Valley il premier Matteo Renzi abbia trovato il modo di chiedere ai pionieri del web qualche ragguaglio sulle loro raffinate tecniche di elusione fiscali. Quelle che, per esempio, hanno consentito a Yahoo!, colosso sia pur declinante dei motori di ricerca, di pagare nel 2013 solo il 24 per cento di tasse sugli utili, quando l’aliquota americana sarebbe del 35 per cento.
La più giovane Twitter è per ora al di sopra di ogni sospetto. Non avendo ancora imbroccato un modello di business esplosivo, ha chiuso l’ultimo bilancio con 664 milioni di dollari (un dollaro vale circa 1,3 euro) e perdite per 645. In pratica per ogni dollaro incassato, Twitter ne spende due, anche se le va riconosciuto che se facesse come una normale azienda italiana avrebbe risparmiato i 593 milioni di dollari investiti in ricerca e avrebbe avuto in conti quasi in pareggio. Ma i giganti del web, come Yahoo! e soprattutto Google, hanno le tecniche di risparmio fiscale tra i decisivi pilastri della loro strategia industriale. Ciò che sta diventando uno dei problemi centrali delle politiche fiscali europee. Nelle more del cambio della guardia tra Enrico Letta e Matteo Renzi il tema della cosiddetta web tax è stato un tema importante di discussione attorno alle politiche di bilancio per il 2014. Il governo Letta l’aveva introdotta, proprio con lo scopo di recuperare un po’ di gettito dalle società che vivono e prosperano sulla rete e sono in grado, del tutto legalmente, di non pagare un euro di tasse nei Paesi dove fanno affari.
E del resto il problema è chiaro: se uno va a fare una ricerca sul motore di ricerca di Google, e viene bombardato dalla pubblicità di aziende italiane che pagano per questo la società americana, come stabilire in quale Paese viene realizzato il profitto? Così la discussione è diventata, come sempre in Italia, vagamente teologica. Renzi, appena eletto segretario del Pd l’8 dicembre 2013, ha bocciato sonoramente la web tax, ritenendo che azzoppasse ingiustamente le aziende innovative e scoraggiasse gli investimenti stranieri in Italia.
Francesco Boccia, presidente della commissione Finanze della Camera e sostenitore del provvedimento, fece inutilmente notare che i dominatori del web di investimenti in Italia non ne fanno proprio, perché il loro business viaggia su un filo di rame: “Quali investimenti hanno fatto questi colossi? Se scappano, scappa zero”. E accusò : “Sono sbalordito dalla insensibilità verso uno dei fenomeni più gravi nella storia del capitalismo mondiale. Un’emorragia finanziaria senza precedenti che ci maciullerà se non interveniamo”. Più ruvido il giudizio di un ex pioniere informatico come Carlo De Benedetti: “Ci sono miliardi di utili fatti in Italia da Google, Amazon e Facebook, dovrebbero essere tassati perchè fatti in Italia. Renzi è contrario, sbaglia. Credo sia influenzato dall’ambasciata americana”. Renzi ha rimandato la questione a una concertazione europea, senza però metterla al centro del suo semestre di presidenza.
Il tema c’è tutto, basta guardare i numeri. Yahoo!, con 4,7 miliardi di dollari di fatturato, ha pagato nel 2013 tasse per 153 milioni. Ma il caso più eclatante è senza dubbio quello di Google, arrivata ormai a 60 miliardi di dollari di ricavi, quasi il doppio di Telecom Italia, per avere un’idea. I suoi utili sono altissimi, 13,9 miliardi di dollari dopo aver pagato le (poche) tasse: a fronte di un’aliquota americana del 35 per cento, se l’è cavata con un versamento effettivo pari al 15,7 per cento dei profitti. Tutto questo avviene fuori degli Stati Uniti, che sulle tasse non perdonano, grazie a una girandola di triangolazioni tra Paesi europei a tassazione favorevole (Irlanda e Olanda soprattutto) e paradisi fiscali tipo Bermuda. Una specie di gioco delle tre carte in grado di far sparire l’imponibile fiscale dai grandi mercati europei e farlo riapparire nell’apposito paradiso.
Ma la partita è ancora apertissima. Non a caso, spulciando il bilancio di Google si scoprono una serie di avvertenze agli azionisti sui rischi connessi a contenziosi fiscali dall’esito “imprevedibile” per 2,7 miliardi di dollari in totale. In giro per tutto il mondo, ma non in Italia.