Maria Pia Fusco, la Repubblica 23/9/2014, 23 settembre 2014
ETTORE SCOLA: “POVERO CINEMA ITALIANO? SEMMAI POVERA ITALIA...”
[Intervista] –
ROMA
Dall’infanzia a Trevico all’ultimo film Che strano chiamarsi Federico : ”Piacere, Ettore Scola” è la mostra monografica sul regista, parte del progetto “Irpinia: un sistema fra cultura e memoria” curato da Maria Savarese di Bagnoli Irpino, dedicato al cinema, alle arti visive, alla fotografia. Inaugurata venerdì scorso, la manifestazione si sposterà in altre città della regione fino alla chiusura ad Avellino il 31 gennaio 2015. «Hanno fatto tutto i curatori Marco Dionisi e Nevio De Pascalis, topi della ricerca: hanno trovato foto della casa di Trevico, me ragazzino, materiale che non conoscevo», dice Scola.
Per lei è un’occasione per evocare memorie dell’infanzia «Pensare al passato non è il mio impegno preferito. A Trevico sono stato fino a 3 anni, poi mio padre, medico condotto, vinse un concorso, andammo a Benevento poi a Roma. Ci tornavo d’estate finché c’erano i miei, poi mai più. Avevamo questa grande casa secolare che mio fratello e io abbiamo donato al Comune, hanno fatto un centro per giovani, ma i giovani sono pochissimi. Anzi, ormai sono pochi gli abitanti, saranno un migliaio».
Conosce bene l’Irpinia?
«L’ho girata nell’80 con Pio La Torre, abbiamo visto i paesi distrutti dal terremoto, ma da allora hanno solo ricostruito qualche palazzina ai bordi degli antichi borghi, edifici moderni, inguardabili. L’Irpinia è una terra ignota ai più, non ha la dignità di una regione, è Campania e la Campania assorbe queste micro regioni. In realtà l’Irpinia non interessa né alle amministrazioni locali, né al governo, tanto meno al parlamento, allora come adesso. Adesso si parla solo di riforme “urgenti”, ma nessuna che interessi la vita quotidiana della gente, se non si risolve il problema del lavoro non si muove nulla e non mi pare che il nostro Renzi sia su questa strada».
Anche lei considera Renzi l’ultima speranza?
«Speranza è una brutta parola, ambigua, comporta rassegnazione. Ci sono i fortunati che sperano nell’aldilà, ma per chi non crede speranza è una parola disperata. Certo, è un dato di fatto, non ci sono altre parrocchie o altre soluzioni, possiamo dire che votando Renzi non abbiamo rimpianti, questo giovanotto non efficiente però efficientista sembra meglio di altri. Ma non credo che le cose cambieranno, almeno per me, per certe generazioni».
È vero che la lettura dei “classici” oggi è il suo passatempo preferito?
«Verissimo, è la lettura più moderna e avanzata. In genere ne tengo due o tre, spesso libri da rileggere. Adesso sto tra Dedalus — l’unico di Joyce che non avevo letto — e l’ultimo di Virginia Woolf, Tra un atto e l’altro , che ha lasciato sulla scrivania prima di suicidarsi, è struggente, appassionante».
Lei non vuole fare più cinema, ma il cinema non l’abbandona: a Venezia Una giornata particolare ha vinto come miglior film restaurato.
«È stato un ottimo lavoro che ha impegnato Tovoli per due mesi. Oltre che per il contesto storico e la magia di Loren e Mastroianni, quel film funziona forse perché è molto semplice, direi quasi elementare, primario ed è sull’ingiustizia, un tema che può toccare chiunque. Ma a Venezia il film ha vinto un altro premio che mi ha fatto piacere perché era particolare, il “Queer King award”, il “principe degli omosessuali”. Mia figlia Silvia è andata a ritirarlo: ma non l’ho mai avuto, glielo hanno rubato».
Il suo “mai più cinema” vale sempre?
«Anzi, ancora di più “mai più”. Anche fisicamente il cinema è un mestiere faticoso — per carità, nessun paragone con il lavoro in miniera — ma esige una vigoria fisica che non ho più. Però lo seguo, vedo quasi tutti i film italiani che escono. Forse si fanno troppe commedie simili fra loro. Per noi la commedia aveva il compito di continuare quello che aveva fatto il neorealismo, raccontare un paese devastato, sgarrupato, pieno di macerie. Sergio Amidei decise che dovevamo pensare anche al divertimento: oltre che perdere la guerra o finire in via Tasso, l’uomo ha anche voglia di divertirsi. E scrisse Domenica d’agosto per Emmer, la prima commedia italiana, una vera rivoluzione, parlava degli italiani che andavano al mare, scherzavano, ridevano. Oggi forse le commedie parlano meno del paese, questo compito gli autori non ce l’hanno più, perché tutto è stato già raccontato, anche grazie alla televisione. La commedia è diventata più ristretta, l’appartamentino, gli amici, il quotidiano, i sentimenti privati».
Non le manca il lavoro collettivo, lo scambio?
«Sì, faceva parte della mia formazione. Al Marc’Aurelio ci si riuniva due volte a settimana. Non era un lavoro individuale, solitario. Più che un’abitudine cercare insieme di cogliere dalla realtà qualcosa da raccontare era un bisogno. Eravamo anche privilegiati, che si può cogliere dalla realtà di oggi? Il confronto era anche duro, severo, erano scannamenti, sul racconto o l’articolo o la vignetta migliore. Ed è continuato con le sceneggiature, c’era sempre un dialogo, una ricerca della parola, dell’aggettivo giusto. Credo che oggi non succeda più neanche tra gli autori televisivi, lo scambio avviene attraverso il computer, non si parla più direttamente, non ci si ascolta. Non so quanto ancora il confronto sia aperto e vivace nelle redazioni dei giornali».
Il suo giudizio sul cinema italiano?
«Forse manca una ricerca del linguaggio e dello stile, perciò quando esce Sorrentino vince, lui uno stile in mente ce l’ha, come ce l’ha Tornatore. Ma ho visto buoni film, I nostri ragazzi, Song ’e Napule, Spaghetti story... il mio giudizio non è catastrofico, ho vissuto momenti peggiori, basta ricordare la serie dei Pierino. Non è giusto dire “povero cinema italiano”. Semmai “povera Italia”».
Maria Pia Fusco, la Repubblica 23/9/2014