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 2014  settembre 23 Martedì calendario

ALLA RADICE DELLE OSSESSIONI ARABO-SAUDITE


[Note alla fine]

1. «QUEL CHE CONQUISTAMMO CON LA SPADA, LO CONSERVEREMO CON la spada» [1]. Nelle parole del principe Nayif ibn ‘Abd al-‘Aziz, sino al 2012 e per trent’anni ministro dell’Interno saudita, sta una delle chiavi per leggere la storia di casa Sa‘ud. Forse la più interessante per ricostruire le geopolitiche trascorse e attuali della famiglia che, all’alba del secolo scorso, iniziò a unire gran parte dello spazio arabico a fil di sciabola e Corano. E oggi veglia sulla più ricca manna petrolifera al mondo, oltre che sulle due sante moschee di Mecca e Medina. Eppure si percepisce debole, forziere prigioniero di se stesso, non controllando gli stretti che lo connettono al mondo – Suez, Hormuz, Bab al-Mandab. Per di più ancorato in uno spazio mediorientale spazzato dalle guerre di successione dell’impero ottomano, fra primavere mai sbocciate, colpi di Stato continui, jihad in via di recrudescenza e alleanze scritte sulla stessa sabbia di cui sono fatti i confini. La sopravvivenza è la preoccupazione costante dei Sa’ud, la precarietà la cifra della loro mentalità. Al punto da inscrivere quelle stesse spade nello stemma nazionale (familiare?), sotto al simbolo della prosperità, la palma da dattero.
L’ossessione saudita per la sicurezza deriva da tre consapevolezze. In primo luogo, il regno – più che lo Stato – è fragile. Confederazione di clan e segmenti sociali di cui è necessario comprare l’obbedienza, l’Arabia Saudita si confronta con le spinte centrifughe di regioni diverse tra loro – e prima di oggi unite solo a sprazzi nel VII e nel XIX secolo – con una forza lavoro straniera per il 90% [2] e con gli equilibrismi imposti dalle inconciliabili opposizioni del riformismo e del puritanesimo islamico. In seconda battuta, le dispute familiari possono portare all’estinzione del regno. L’incubo è comprensibile, vista la storia dei precedenti reami e la prolificità degli attuali reali – oggi si contano circa 5 mila principi – tanto da spingere, sul letto di morte, il fondatore ‘Abd al ‘Aziz a farsi giurare dai prediletti Sa‘ud e Faysal che avrebbero appianato privatamente i loro dissidi. Infine, le grandi potenze hanno un’influenza decisiva sulle sorti saudite, avendone causato la fine (gli ottomani nel XIX secolo), delimitato i confini (i britannici), protetto il suolo dagli assedi altrui (gli americani con Saddam) o prospettato lo smembramento (esercizio sempre in voga tra gli scenaristi d’Oltreoceano).
Da questi timori scaturisce un approccio geopolitico poggiato su tre pilastri. Primo, le riforme e la modernizzazione – oliate dall’abbondanza energetica ma centellinate per renderle digeribili al radicalismo islamico – come strumento per sedare le proprie opinioni pubbliche, con il fine ultimo di non apparire preda facile a nemici interni ed esteri. Secondo, evitare le luci della ribalta, con uno stile diplomatico cauto ma tatticamente molto flessibile, aperto a ogni tipo di cambio di sponda e contraddizione pur di evitare la sovraesposizione. Invece di impiegare le rendite petrolifere per intervenire militarmente nei teatri d’instabilità, meglio comprarsi clienti locali della cui lealtà è però spesso lecito dubitare. Si conta, in ultima istanza, sull’ombrello strategico della grande potenza di turno. Ieri la Gran Bretagna, oggi gli Stati Uniti, domani chissà (Cina?). Terzo, l’investimento sul puritanesimo religioso, ossia sul wahhabismo, corrente integralista islamica che predica la purezza della parola del Corano. La storia saudita è scandita da questa dottrina, prima forza militare per conquistare l’impero, poi, assieme alla custodia di Mecca e Medina, strumento di legittimazione per la casa reale che le impone di difendere e promuovere l’islam, in patria come nel mondo. Così il proselitfemo diventa una leva per incidere sui conflitti che puntellano Medio Oriente e Nordafrica (ma non solo). Ecco perché tracciare e cartografare la mentalità e gli imperativi strategici dell’Arabia Saudita, risalendo il torrente della sua storia, aiuta a destreggiarsi nell’analisi dello tsunami che continua a sconvolgere la regione.
2. L’odierno regno è il diretto erede di due precedenti reami, il primo datato 1744-1818 e il secondo 1824-1891. Già in queste prime esperienze emergono fattori rilevanti per la successiva e duratura incarnazione saudita del XX secolo: il fervore religioso, il ruolo da deus ex machina delle grandi potenze e le dispute familiari.
Il big bang della storia saudita avviene nel 1744 nel Nagd, cuore nonché unico spicchio fertile dell’Arabia. Nel villaggio di al-Dir’iyya, uno sayh di scarso rilievo chiamato Muhammad ibn Sa‘ud si allea con un qadi, un giudice, Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab – seguace della scuola hanbalita che predica il ritorno alla purezza dell’islam – per conquistare e purificare la penisola. Nel giro di sessant’anni, l’attrattività del messaggio wahhabita, che trascende i legami tribali senza sacrificare l’ethos beduino, permette ai Sa’ud di costruire un impero che va dalla Mecca al Mare Arabico, sino a lambire con le razzie i monti dell’Hadramawt e le città arabe a nord del Golfo: nel 1801 a Karbala’, nell’odierno Iraq, vengono massacrati 5 mila sciiti, tragedia ancora presente nella retorica settaria.
Tuttavia, la perdita delle due città sante scatena la reazione dell’impero ottomano, che dal Cairo fa partire nel 1811 una spedizione punitiva contro gli arabi ribelli. In due ondate gli egiziani arrivano ad assediare al-Dir’iyya, che resiste cinque mesi prima che il suo sovrano si consegni per essere decapitato e impalato a Costantinopoli. Ha così fine il primo regno saudita, inferiore rispetto al nemico in tecnologia bellica e autorità nel mondo islamico.
Nel 1824, un altro ramo della famiglia riprende il controllo del Nagd e annette la regione costiera dell’Ahsa’, esibendo però più autocontrollo: mettendo le briglie al wahhabismo da conquista e curandosi di non sfidare ottomani e britannici. Questi ultimi, dopo aver bloccato i primi Sa’ud a Mascate e Aden, stanno consolidando le proprie posizioni nel Golfo Persico, siglando con gli sceicchi della Costa dei Pirati una serie di accordi che porteranno a un protettorato. La cautela saudita non impedisce agli egiziani nel 1836-41 di penetrare nuovamente nella penisola, parte del tentativo di Muhammad ‘Ali di ritagliarsi un proprio impero ai danni di Costantinopoli. Disegno fallito, ma non per la resistenza locale, spazzata via velocemente; piuttosto, le potenze europee impongono ad ‘Ali di rientrare nei ranghi, di fatto schiudendo le porte al ritorno dei Sa‘ud.
Restano però irrisolti i problemi alla base della debolezza del reame, privo delle risorse per creare efficaci istituzioni di potere. Solo la qualità della leadership funge da collante, rendendo la successione una questione molto delicata. Così, nel 1871, a pochi anni dalla morte di Faysal, al potere per due decenni, s’innesca un’interminabile serie di lotte fratricide tra i suoi quattro eredi. Gli ottomani ne approfittano per conquistare Ahsa’ e ‘Asir, mentre smettono di pagare il tributo al regno il Qasim e il Gabal Sammar. Qui si afferma la famiglia dei Rasid, che diviene addirittura arbitro dei litigi dei Sa’ud, sino a porvi la pietra tombale sconfiggendo in battaglia nel 1891 l’ultimo erede di Faysal, ‘Abd al-Rahman, costretto all’esilio in Kuwait. Là dove, undici anni più tardi, partirà la riconquista guidata da suo figlio, ‘Abd al-‘Aziz, il padre dell’Arabia Saudita.

3. Quando nel 1914 scoppia la prima guerra mondiale, il regno di ‘Abd al-‘Aziz, il terzo saudita, solca acque burrascose. Ripresa Riyad con un colpo di mano nel 1902 [3] e sottratta al moribondo califfato la costa dell’Ahsa’ nel 1913, il rampollo di casa Sa‘ud è costretto da un’intesa tra Londra e Costantinopoli a formalizzare il suo status di vassallo degli ottomani, oltre a faticare a elargire le risorse per congelare tensioni familiari, tribali ed estere. Vent’anni dopo, è capo di un impero, ha in tasca un accordo con l’egemone regionale britannico e si proclama difensore dell’islam.
A permettere l’impresa sono ancora una volta le grandi potenze, sia in absentia che attivamente. Il collasso della Sublime Porta consente ad ‘Abd al-‘Aziz di partire alla conquista delle città sante, dei deserti del Nord e delle montagne del Sud-Ovest. La Gran Bretagna prende atto con una certa dose di realismo del mutamento degli equilibri nella Penisola Arabica e non si oppone alla liquidazione della monarchia hascemita dell’Higaz nel 1925. A delimitare però i confini del regno saranno proprio i britannici, che alla fine della Grande guerra circondano di colonie, mandati o protettorati i possedimenti di ‘Abd al-‘Aziz.
Nella conquista materiale gioca un ruolo determinante il fanatismo religioso. Grandi protagonisti, gli ihwan («fratelli»), ferventi wahhabiti organizzati in milizie e aizzati dalla promessa di purificare il mondo musulmano. Quando però nel 1926 alle guerre si sostituisce la fase del consolidamento, il furore degli ihwan si ritorce contro ‘Abd al-‘Aziz: emergono dissidi sulla tassazione, sull’applicazione del wahhabismo nel più occidentalizzato Higaz, sulla continuazione del jibad in Iraq e in Transgiordania e sui diritti pastorali oltre frontiera, concetto estraneo alla mentalità beduina. Scoppia una rivolta che sfocia in Iraq, scatenando l’intervento dell’aviazione britannica; solo nel 1929 il monarca saudita riesce a piegare tribù e milizie ribelli.
Nonostante il successo, alla proclamazione formale del regno nel 1932 ‘Abd al-‘Aziz appare debole. I tumulti interni minano la sua immagine di leader in grado di radunare consenso. L’insubordinazione degli ihwan mostra al re la necessità di porre fine al wahhabismo da esportazione, senza però poter rinunciare al puritanesimo religioso come fonte di legittimazione. Le frontiere sono tutt’altro che fissate: a nord si è installato l’irredentismo dei discendenti hascemiti, a est emergono dispute con gli altri emirati arabi e a sud scoppia una guerra contro l’imam dello Yemen.
Il petrolio salva ‘Abd al-‘Aziz, fornendogli le sospirate risorse per oliare i rapporti con le tribù, gestite dal monarca come fossero relazioni internazionali, attraverso la deterrenza della propria guardia reale e alcune alleanze matrimoniali. Nel 1933 viene concessa l’estrazione alla Standard Oil of California che nel 1938, nel pozzo numero 7 di Dammam, spilla la prima grande quantità di oro nero. Altra conseguenza geopolitica: la nascita dell’asse con gli Stati Uniti. Durante la seconda guerra mondiale, il petrolio a stelle e strisce rappresenta il 63% del consumo mondiale, suscitando timori di «penuria strategica». «Prima della prossima generazione», protesta il senatore repubblicano Owen Brewster, «l’America mendicherà petrolio alle tavole del mondo». Della soluzione si trova traccia in un memorandum diplomatico del 1942: «Lo sviluppo delle risorse petrolifere saudite dovrebbe essere visto nell’ottica dell’interesse nazionale generale» [4]. La sete energetica intercetta il desiderio di ‘Abd al-‘Aziz di difendersi dagli Stati hascemiti sulla via dell’indipendenza e smarcarsi dalla declinante e poco affidabile Gran Bretagna.
A suggellare l’intesa, l’incontro tra il presidente Roosevelt e il monarca saudita sul ponte dell’incrociatore Quincy nel Grande Lago Salato il 14 febbraio 1945. Per formalizzarne i termini s’attendono sei anni: deluse le speranze di ‘Abd al-‘Aziz per un trattato formale, Riyad ottiene nondimeno armi e addestramento per le nascenti forze saudite, la presenza militare americana nell’aeroporto di Zahran, prestiti attraverso la Export-Import Bank e un accordo commerciale e di navigazione. Tuttavia l’alleanza con Washington non equivarrà mai a una completa coincidenza d’interessi, lasciando ampio spazio per veri e propri scontri frontali su diversi dossier. Ambiguità inscritta nella genesi del rapporto. Dopo cinque ore di colloquio sul Quincy, Roosevelt promette ad ‘Abd al-‘Aziz che non farà «nulla per assistere gli ebrei contro gli arabi e nessuna mossa ostile agli arabi» e non cambierà la sua politica palestinese «senza prima consultarsi pienamente sia con gli ebrei sia con gli arabi» [5]. L’imminente conflitto arabo-israeliano sommergerà quella promessa.

4. Tra minacce ideologiche e conflitti intrecciati, durante la guerra fredda, agli occhi sauditi, il Medio Oriente diventa un Risiko indiavolato. Colpi di Stato militari e rivoluzioni si susseguono senza posa nella stagione 1952-79. Il nazionalismo arabo di Nasser si pone l’obiettivo di rovesciare i sovrani di Riyad, guadagna punti nell’opinione pubblica saudita sino a ispirare progetti (abortiti) di golpe e conduce l’assalto dallo Yemen. Movimenti marxisti o regimi allineati ai sovietici costruiscono una collana di perle attorno alle petromonarchie del Golfo. La geopolitica saudita si concentra sul contenimento dell’instabilità propagata da tre teatri, non a caso collocati nei pressi degli stretti vitali per i commerci: la «Palestina allargata» (l’area interessata dalle emanazioni degli scontri arabo-israeliani), i due Yemen e il Golfo Persico. In essi, il peso e le manovre di Riyad le permettono di sopravvivere ai conflitti, ma non di risolverli. Servono a soddisfare preoccupazioni di breve termine, a discapito di alcuni interessi strategici.
In ciascuno scenario, al di la dell’onnipresenza sovietico-statunitense, la posizione saudita richiede un costante bilanciamento tra almeno due attori dalle agende quasi sempre confliggenti. Valga d’esempio la richiesta degli Stati Uniti di sostegno agli accordi di Camp David, che avrebbe consentito il riavvicinamento al Cairo, cui Riyad risponde picche per non far saltare l’asse con Damasco e Baghdad appena imbastito. Gran rifiuto cui la dirigenza saudita farà seguire un tentativo di ricucire con Washington, piede in due staffe insostenibile per Siria e Iraq, che non mancheranno di segnalare il loro malcontento.
La cautela strategica – che si traduce nell’astensione dall’uso della forza – è funzione di tre fattori, oltre alla protezione americana (difatti scattata alla prima, vera, minaccia: l’invasione irachena del Kuwait nel 1990). Primo, la sfiducia nelle Forze armate, ancora in erba e sospettate di tendenze golpiste. Secondo, il timore che un rovescio militare possa aizzare le spinte centrifughe delle regioni più irrequiete, oltre a spianare la strada a un’invasione, favorita dall’ambiente desertico e dalla scarsa densità abitativa [6]. Infine, un’evoluzione che inciderà sul sistema di potere presieduto dai Sa‘ud: la diluizione della leadership. Morto Faysal, terzo re dal 1964 al 1975 e ventennale depositario della strategia saudita, la figura del monarca muta pelle. Da singolo decisore che coltiva il consenso nella casa reale ad arbitro ultimo di una gestione collettiva del processo decisionale. Dunque sospinto verso compromessi interni e approcci reattivi [7].
In questo ambiente strategico matura lo shock petrolifero. L’embargo del 1973 in risposta al volgere negativo degli eventi per Siria ed Egitto nella guerra dello Yom Kippur e la decisione del 1974 di non abbassare il quadruplicato prezzo dell’oro nero – scelta anche questa motivata più dalla volontà di non inimicarsi l’Iran che da un ragionamento strategico – cambieranno per sempre la società saudita. Inondandola di petrodollari: tra 1969 e 1974 le rendite schizzano da 96 milioni di dollari a 22 miliardi annui. Somme che la dirigenza saudita decide di investire nella modernizzazione del regno, tra industrie, infrastrutture e Forze armate [8]. Lo sviluppo accelerato porterà i suoi frutti: dagli anni Ottanta si formerà una classe media, il 30% dei beduini lascerà il deserto, gli ospedali quadruplicheranno, sarà completata la rete stradale, fiorirà l’industria soprattutto petrolchimica. Tuttavia, lo sviluppo accelerato genera un dilemma: come contenere la frizione fra le interpretazioni religiose e fra stili di vita diversi? Domanda tragicamente d’attualità nel 1979.

5. Il 1979 segna un’altra cesura per l’Arabia Saudita. Il colpo di Stato khomeinista in Iran sostituisce alle ambizioni egemoniche dello scià un centro d’irradiamento dello sciismo rivoluzionario che – pur esaurendo il primordiale slancio nella guerra contro l’Iraq del 1980-88 – sfida apertamente la legittimità dei Sa‘ud nel mondo musulmano. Soprattutto, il 20 novembre la Grande Moschea della Mecca viene presa da un manipolo di estremisti wahhabiti che proclamano la venuta del Mahdi e la deposizione della corrotta casa reale. La quale si rivolge agli ‘ulama’ per denunciare gli impostori e farsi autorizzare a insanguinare il sacro luogo di culto per sgominarli. L’élite religiosa acconsente, ma a una condizione. I Sa’ud dovranno salvaguardare il paese dalla diffusione dei costumi licenziosi della cultura occidentale permessa dall’abbondanza di petrodollari, spendendo quelle risorse per diffondere il wahhabismo, in patria e all’estero [9].
L’invasione sovietica dell’Afghanistan è la prima occasione per mantenere la promessa di difendere l’islam e Riyad incentiva il flusso di armi e uomini per sostenere la resistenza dei mujahidin. Tra le gole dell’Hindu Kush nascerà la struttura al-Qa‘ida, gestita dal saudita Osama bin Laden. Il proselitismo non è solo una politica di Stato, ma il problema è che il regno non riesce a controllare i finanziamenti dei privati. Dalle madrase pakistane al Fronte islamico di salvezza algerino, dalla guerra civile in Bosnia alla resistenza anti-russa cecena, dall’Asia centrale post-sovietica fino alle Filippine e al megafono della Lega musulmana mondiale con sede alla Mecca, fondi di origine saudita alimentano radicalismi e insurrezioni varie. Di cui però nessuno tiene le redini.
Sebbene l’intento sia anche tener lontani gli estremisti più irrequieti dai propri confini, il regno non è immune al terrorismo. Nel 1995 e nel 1996, due attentati colpiscono la Guardia nazionale e un complesso residenziale dove alloggiano militari americani. Ondata ancor più forte dopo l’11 settembre: nel 2003-5, almeno trenta attacchi scuotono il paese, infiammando tensioni regionali latenti, cui re ‘Abdallah risponde con concessioni agli sciiti dell’Ahsa’. Stesso periodo in cui si tengono le prime elezioni, a livello municipale, ideale prosieguo delle caute misure politiche inaugurate dalla pubblicazione nel 1992 della prima legge fondamentale del paese.
Si sarebbe tentati di interpretare in chiave religiosa anche le altre due partite che orientano la geopolitica contemporanea di Riyad: quella con i Fratelli musulmani e quella con l’Iran. Sarebbe tuttavia superficiale. Sia la Fratellanza che Teheran propongono una versione politica dell’islam alternativa al principio monarchico-dinastico. Alternativa inaccettabile agli occhi di casa Sa‘ud, convinta di dover presiedere a una lenta e graduale modernizzazione, pena la disgregazione del paese.
È attraverso questo prisma che il raggio di luce acceso dalle ormai svaporate «primavere arabe» ha portato Riyad a soffocare sul nascere i disordini alle soglie del regno (intervenendo militarmente in Bahrein, occasione più unica che rara), ad aprire i rubinetti per anestetizzare i propri sudditi e a investire nei paesi del Nordafrica per garantirsi influenza. Sostenendo in seguito il golpe di al-Sisi in Egitto per chiudere la breve e goffa esperienza al potere della Fratellanza, punto forse decisivo nel confronto con il cugino ribelle qatarino, centro d’irradiamento della confraternita. Ed è sempre in virtù di questa logica, stavolta in funzione anti-iraniana, che l’Arabia Saudita ha investito nella guerra civile siriana, armando la ribellione e riallacciando antichi rapporti tribali per aver voce nel disomogeneo fronte dell’opposizione. Obiettivo: non per forza rovesciare al-Asad, ma quantomeno intaccare l’asse strategico di Teheran che nel regime alauita ha un perno importante. La faglia che da Hormuz a Beirut solca la regione si svela così non quale mera divisione tra sunniti e sciiti o tra arabi e persiani, ma come campo di battaglia per determinare nuovi rapporti di forza tra potenze, clienti o poteri informali. Ovviamente, a fil di spada e di Corano.

1. Cit. in M. DARLOW, B. BRAY, Ibn Saud: The Desert Warrior Who Created the Kingdom of Saudi Arabia, New York 2012, Skyhorse Publishing, p. 560.
2. La dipendenza dalla forza lavoro estera – proveniente soprattutto dai paesi arabi e dall’Asia meridionale – per sopperire alla mancanza di manodopera specializzata alimenta una disoccupazione molto consistente. E ancor più preoccupante se si considera che tra 1990 e 2010 la popolazione saudita è passata da 16 a 28 milioni di persone circa.
3. La prima mossa politica di ‘Abd al-‘Aziz una volta conquistata Riyad è sposare Tarfah, figlia del qadi della città e discendente di al-Wahhab, a testimonianza della saldatura tra Sa‘ud e classe religiosa.
4. Entrambe le citazioni in R. LACEY, The Kingdom, London 1981, Hutchinson, pp. 262-263.
5. Cfr. M. DARLOW, B. BRAY, op. cit. p. 438.
6. Per un’analisi della tardiva e claudicante costruzione delle Forze armate, vedi S. CRONIN, Armies and State Building in the Modern Middle East: Politics, Nationalism and Military Reform, London, 2014, I.B, Tauris, pp. 205-239.
7. Cfr. N. SAFRAN, Saudi Arabia: The Ceaseless Quest for Security, Cambridge 1985, The Belknap Press of Harvard University Press, pp. 217-227.
8. Con 67 miliardi dollari annui, l’Arabia Saudita è oggi il quarto paese al mondo per spesa militare assoluta, circa nove volte quella iraniana.
9. Cfr. Y. TROFIMOV, The Siege of Mecca: The Forgotten Uprising, London 2007, Penguin Books.