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 2014  settembre 23 Martedì calendario

E NOI PAGHIAMO…


[Note alla fine]

1. LO STATO ISLAMICO NON È L’APOCALISSI DIPINTA DAL CORO dei media internazionali e da leader d’ogni colore, non solo occidentali. Il suo capo, Abu Bakr al-Bagdadi, è un «califfo» molto virtuale. Questo sedicente successore di Maometto, al secolo Ibrahim ‘Awad al Badri, cui Time ha assegnato l’immeritato titolo di «uomo più pericoloso del mondo» [1], non è né potrà diventare il supremo ordinatore dell’universo musulmano. Non è nemmeno un soggetto autonomo, per sé capace di alterare le equazioni di potenza in Medio Oriente. Ma lo Stato islamico – Is, stando all’acronimo inglese (da Islamic State) che certifica la penetrazione universale del brand – non vale tanto per quel che è quanto per come viene percepito, reinterpretato e usato dalle potenze locali, regionali e globali. Sotto tale profilo, si offre insieme come rivelatore geopolitico, strumento maneggiabile da attori assai più consistenti per fini propri, marchio semplice e geniale, potenzialmente attraente nell’ecumene islamica. Compresa quella di casa nostra.
Tre angoli di lettura cui corrispondono altrettante maschere del «califfo», sovrapponigli e intercambiabili in base al punto di osservazione e degli interessi in gioco, generando ipnotici effetti di luci e ombre. Miraggi, forse. Ma nel deserto, spazio di annunciazioni, i miraggi contano. A occhi ingenui o interessati paiono più reali della realtà. Non sarà perciò vano osservare gli effetti della fin troppo reclamizzata entrata in scena del «califfato» sulle partite levantino-mediorientali, sull’umma islamica e per conseguenza sulla geopolitica planetaria. Consapevoli che impatto e destino dell’ennesimo sogno califfato saranno determinati da nemici e sostenitori – talvolta lo stesso soggetto in versione palese od occulta – più che dalle scelte di al-Bagdadi.
Non inganni il modesto peso specifico dello Stato Islamico. Certo, in un contesto geopolitico ben temperato, atrocità e imprese belliche dell’ultima stella della costellazione jihadista meriterebbero oggi l’attenzione della cronaca, domani forse una nota a piè di pagina nei manuali di storia. Nel caos contemporaneo, le scorribande del «califfo» possono però produrre effetti sistemici grazie alla formidabile confusione nella sua area di operazioni, alla delegittimazione dei regimi sopravvissuti alla prima fase della cosiddetta «primavera araba» o da essa prodotti, al vuoto strategico di ciò che residua dell’Occidente. Non ultimo, l’Is è un eccellente messaggero di se stesso. Scaltro nel cavalcare le nuovissime tecnologie dell’informazione, con messaggi calibrati sulle varie audiences, sfruttando il riflesso giornalistico all’enfasi che deforma nello specchio mediatico il «mostro» di stagione. Sicché lo Stato Islamico, che non è (ancora?) uno Stato e per buona parte dei musulmani tantomeno è islamico, acquista un rilievo incongruo alla sua taglia effettiva. Peggio: se non riusciremo a leggerne i tratti profondi, a interpretarne le azioni e a coglierne gli scopi, contribuiremo a moltiplicarne la statura. Esattamente ciò che al-Bagdadi e associati desiderano. E perseguono finora con notevole successo.
Un’analisi fredda dello Stato Islamico, da cui discernerne gli usi come rivelatore, marchio e strumento geopolitico, suppone anzitutto di non fissare lo sguardo solo sulle modalità volutamente efferate delle sue azioni, peraltro non così straordinarie in quel contesto. Le decapitazioni pubbliche, ad esempio, sono prassi corrente in Arabia Saudita, partner decisivo nel fronte antiterroristico a guida americana, «terra del dialogo e della cultura» giusto il titolo di una mostra recentemente ospitata nel cuore di Roma. Fuori da sensazionalismi e orientalismi di maniera, serve concentrarsi sugli scopi e sulle strutture che promuovono il «califfato». È suggerito un esercizio di modestia, che senza mirare a ricavarne verità definitive tenti di rispondere ad alcune domande chiave. Parafrasando quelle poste da Donald Rumsfeld a se stesso – quando da ministro della Difesa dirigeva la fase calda della «guerra al terrorismo» – in un momento di eclissi della sua di norma incontenibile arroganza intellettuale: Che cosa crediamo di sapere dello Stato Islamico? Che cosa immaginiamo di non saperne? Che cosa non sappiamo di non saperne?

2. Gli ultimi due interrogativi aprono un catalogo infinito. Consideriamoli esercizi di metodo. Ci limitiamo a confessare che la lista della nostra ignoranza, effettiva e supposta, sarebbe piuttosto lunga. Lasciamo a ciascun lettore di compilare la propria, pronti a pubblicarne le più suggestive sul nostro sito (www.limesonline.com).
Quanto invece alle verità sull’Is che i più reputati laboratori strategici presumono di conoscere, queste tendono a marcarne il carattere originale rispetto ad al-Qd‘ida: altra maschera dai mille usi, anzitutto quello di giustificare la «crociata» di George W. Bush. Lo stesso al Bagdadi – pur formatesi alla guerra santa con i taliban in Afghanistan e poi in Iraq, nel Gund al-Sam (Esercito della Siria) collegato ad Abu Mus’ab al-Zarqawi, altra figura obliqua e fantasmatica – è stato sconfessato da Ayman al-Zawahiri, riferimento principe della galassia qaidista, perché troppo settario, sanguinario, ambizioso.
Dispute personali e rivalità di gruppo a parte, la novità principale attribuita ad al-Bagdadi sta nel marchio senza confini – Stato Islamico – che segnala l’ambizione statuale in veste califfato. Nell’ortodossia musulmana califfo è il «vicario dell’Inviato di Dio», ossia di Maometto. La scelta del nome Abu Bakr richiama il primo califfo, regnante dal 632 al 634, che con i suoi tre successori forma il quartetto dei «ben guidati», eletti e non eredi del titolo, come avverrà a partire da Mu‘awiya (661-680), capostipite della dinastia degli omayyadi: quello sì vero impero.
Anche l’Is battezzato il 29 giugno da al-Bagdadi pretende un territorio da governare. Uno spazio in continua espansione per mezzo del proselitismo e della guerra santa. Tendenzialmente globale. Nel quale si applichino i precetti religiosi che lo Stato Islamico eredita dalle movenze rigoriste sunnite, specie dal purismo wahhabita. Fondata da Ibn‘Abd al-Wahhab (1703-92) nell’Arabia centrale, questa corrente religiosa guarda alle origini dell’islam come al paradigma cui ciascun musulmano deve ispirarsi. Al-Wahhab trovò nel capo di una tribù beduina, l’emiro Muhammad ibn Sa‘ud, il suo referente geopolitico, con il quale strinse nel 1744 l’alleanza che sarà all’origine della potenza saudita. L’intesa con gli ‘ulama’ wahhabiti, tutt’altro che tranquilla, legittima tuttora il trono di Riyad. Il monarca saudita assume veste intoccabile quale custode delle due sacre moschee di Mecca e Medina. In questo matrimonio di convenienza il wahbabismo ha perso la «purezza» originaria. Si è orientato al quietismo per trasformarsi in strumento di conservazione e legittimazione del regno saudita, che i jihadisti come al-Bagdadi – non solo loro – considerano corrotto e asservito all’Occidente. Gli ideologi dell’Is si richiamano infatti a precedenti movimenti di ribellione contro gli «apostati» della famiglia reale, tra i quali spicca la rivolta degli ihwan («fratelli»), che nel 1979 occuparono la Grande Moschea della Mecca prima di essere massacrati dalle truppe leali al sovrano.
L’obiettivo ultimo dello Stato Islamico è liberare i Luoghi Santi. Per riportarli sotto il dominio della vera fede, assegnandoli al governo di un califfo cui affidare insieme applicazione della dottrina e supremo potere sulla dar-al-islam. La casa di tutti i musulmani, che non conosce confini né lealtà tribali, confessionali, etniche o nazionali perché si regge sull’osservanza stretta della legge islamica (shari‘a). Non un’utopia ultraminoritaria, visto che un recente sondaggio attribuisce al 92% dei sauditi l’opinione che «lo Stato Islamico è conforme ai valori dell’islam e della legge islamica» [2]. Si capisce dunque il terrore di casa Sa‘ud che il marchio Is possa diventare strumento di una rivoluzione destinata a spazzarla via. La senile monarchia che ha finanziato o lasciato finanziare da organizzazioni caritatevoli ad essa afferenti una panoplia di gruppi jihadisti, tra cui quello di al-Bagdadi, purché stessero lontani dal regno saudita e si rendessero utili contro regimi e movimenti avversari, teme l’onda di ritorno del «califfo». Paura giustificata anche dal cambio di logo deciso da al-Bagdadi – o da chi per lui – solo tre mesi fa, quando la denominazione originaria di Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isil), riferita alla terra in cui quel gruppo jihadista opera e su cui ha cominciato a radicare le sue strutture, è stata emendata dei riferimenti geografici. Eliminare il richiamo a territori specifici indica l’intento ecumenico dell’Is, che ambisce a qualificarsi come faro dell’umma musulmana a partire dal nucleo para-statuale in Mesopotamia. Minaccia dunque diretta non tanto all’Occidente, quanto ai regimi «apostati» della dar-al-islam, anzitutto alla sua massima potenza religiosa, energetica e geopolitica: l’Arabia Saudita.
Il marchio Is vuole agire sull’immaginario collettivo dei musulmani di tutto il mondo, inclusi gli insediati nelle terre degli infedeli – anzitutto Europa, Russia e Stati Uniti. Più di altre strutture jihadiste, lo Stato Islamico è riuscito ad attrarre e inquadrare migliaia di combattenti provenienti da nazioni occidentali e cristiane, tra cui molti convertiti, attivi sul campo di battaglia come nello spazio virtuale della Rete. Il tagliagole che decapita i giornalisti americani James Foley (19 agosto) e Steven Sotloff (2 settembre) scandendo i suoi proclami in Queen’s English – battezzato «Jihadi John» dai media che ne hanno rilanciato l’orrore – è l’icona di questa ramificazione terroristica radicata negli angoli oscuri delle comunità islamiche di casa nostra.

3. Al di là del richiamo religioso e delle performance dei suoi banditori su Internet e nei tenitori conquistati, l’iniziale successo dell’Is non si spiega senza considerarne la genesi geopolitica. Lo Stato Islamico si forgia nelle guerre del dopo-11 settembre in Afghanistan e in Iraq, per poi infiltrarsi nella mischia siriana. Insieme, fruisce della crisi o della disgregazione di alcuni Stati/regime (Tunisia, Egitto, Libia, Siria, Yemen...) indotte dalla «primavera araba» e dalla controrivoluzione a guida saudita. Doppio tsunami, che ha scavato immensi vuoti geopolitici dal Sahel all’Asia Centrale. A testimoniare il tramonto delle istituzioni pseudonazionali inventate dai colonialisti europei in seguito al collasso dell’impero ottomano, fino alla deposizione dell’ultimo, patetico califfo, Abdulmecid II, nel 1924. Oggi il «califfo» virtuale si esibisce infatti come eversore dei patti stretti dagli infedeli sulle rovine della Sublime Porta, a partire dagli accordi segreti Sykes-Picot (1916), fonte della successiva spartizione di Levante e Mesopotamia fra Gran Bretagna e Francia.
Il vuoto lasciato dagli «Stati nazionali» promossi e inizialmente controllati dagli anglo-francesi invita alla fioritura di antichi e recenti poteri informali, soggetti tribali e/o gruppi jihadisti a caccia di risorse e territori ingovernati. L’Is è figlio di questa crisi. In particolare, della disintegrazione dell’Iraq e della Siria. Possiamo rendercene conto seguendo sulla carta il profilo della sua espansione logistica-militare, a cavallo dell’ormai inesistente frontiera siro-irachena, nello spazio compreso tra le periferie orientali di Aleppo, il centro di Raqqa – suo quartier generale politico-militare – e i corridoi di penetrazione lungo la valle dell’Eufrate, fino a Falluga e oltre, a incombere sulla città santa sciita di Karbala ‘ e sulla stessa Baghdad (dove peraltro non intende suicidarsi in un impossibile attacco frontale alla metropoli militarizzata). C’è poi la direttrice settentrionale che penetra nella piana di Ninive, punta verso il corso del Tigri e sfocia a Mosul, città di oltre due milioni di abitanti ai confini del Kurdistan iracheno caduta senza quasi combattere nelle mani del «califfo», quindi evacuata da un quarto della sua popolazione. In agosto le avanguardie dell’Is si erano spinte fino a venti chilometri dalla capitale curda Arbil, in quella che resta a oggi la sua massima avanzata sul fronte nord.
Lo Stato Islamico riempie i vuoti prodotti dall’implosione dei suoi nemici. Nella Siria nord-orientale, dove dopo aver dissanguato alcuni gruppi jihadisti rivali ha inflitto alle truppe di al-Asad l’umiliazione della presa della base militare di Tabaqa; e nell’Iraq centro-settentrionale, dove le milizie del «califfo» sono alimentate dai reduci dell’esercito di Saddam e dalle tribù sunnite emarginate, perseguitate e deprivate delle loro risorse dal governo sciita di Baghdad.
Di qui a cartografare un vero e proprio «Piemonte» sottoposto al comando del «califfo», quasi fosse uno Stato nel senso comune del termine, molto ne corre. Eppure le mappe apparse su reputati media occidentali, come l’Economisti, rappresentano il campo di battaglia dell’Is quale entità di fatto sovrana, con tanto di capitale (Raqqa). Continuum territoriale di rispettabili dimensioni: quasi centomila chilometri quadrati, un terzo dell’Italia. Con smisurate aree desertiche attribuite allo Stato Islamico. A uno sguardo smagato, quell’abbozzo di «califfato» si svela sequenza di sacche tenute dalle truppe di al-Bagdadi, in coabitazione – o in frizione – con locali poteri informali, afferenti a tribù e clan sunniti dotati di ramificazioni transnazionali. Una rete logistica i cui nodi strategici, collegati da strade asfaltate e piste nel deserto, sono giacimenti petroliferi, infrastrutture militari, corsi e serbatoi d’acqua, villaggi ma anche imponenti centri urbani.
Su questa piattaforma gli uomini di al-Bagdadi cercano di imperniare uno Stato ispirato alla legge coranica. Con brutalità mista a pragmatismo. Sfruttando le risorse conquistate, inclusi pozzi di petrolio siriani e iracheni che consentono ai cassieri del «califfo» di accumulare centinaia di milioni di dollari al mercato nero dell’energia. Fra le fonti di finanziamento anche il traffico di reperti archeologici. Specie nelle province di Aleppo e di Raqqa, dove l’Is riscuote dai locali specialisti in scavi clandestini il hums, tassa coranica equivalente alla quinta parte del bene acquisito, spesso arrotondata a percentuali superiori. Il bottino viene avviato verso i mercati mondiali attraverso il valico di Tall Abyad, che dalla Siria porta in Turchia, controllato dagli uomini di al-Bagdadi.
Le tattiche militari dello Stato Islamico non sono tipiche del terrorismo. Ne adottano alcune tecniche, come gli attentati suicidi, ma appaiono funzionali all’obiettivo di costruire la piattaforma territoriale del rinascente «califfato». Gli oltre ventimila guerriglieri che combattono sotto la bandiera nera provengono da Iraq e Siria, dalle petromonarchie del Golfo, dal Nordafrica, dalla Russia (ceceni, daghestani e altri caucasici), dall’Asia centrale e dall’Indonesia. Ma anche dall’Occidente: statunitensi, francesi, italiani, soprattutto britannici. Si calcola che i combattenti Is in provenienza dal Londonistan e dintorni siano almeno 1.500, più del doppio dei circa 600 musulmani inquadrati nelle Forze armate della regina Elisabetta.
I miliziani dello Stato Islamico adottano strutture e assumono posture da esercito convenzionale, che rivelano la mano di ex ufficiali dell’esercito di Saddam. Tra i quali spicca ‘Izzat Ibrahim al-Duri, il «re di fiori» nel mazzo di carte dei super-ricercati Usa dopo l’invasione dell’Iraq. I soldati del «califfo» schierano agili formazioni motorizzate di 80-100 uomini, provviste di armi moderne, rastrellate nei depositi abbandonati dagli americani in Iraq o dall’esercito siriano, come pure mini-battaglioni da 200-300 unità, dotati di ampia autonomia tattica. Truppe addestrate a mimetizzarsi nell’ambiente, a non offrire bersagli troppo visibili al nemico, rinunciando a grandi depositi e accampamenti.
I soldati dell’Is, come i taliban afghani, adorano il Toyota Hilux – da non confondere con la monovolume Toyota Isis, varata dalla casa giapponese nel 2004 senza immaginare, supponiamo, di intitolarla al futuro gruppo di al-Bagdadi. Un pick-up militarizzato con opportuni optional, a formare colonne mobili pubblicizzate in Rete dai portavoce del «califfo». Quarantatré di questi veicoli sono bottino di guerra: Obama li aveva donati a ribelli «moderati» siriani (noti alla Cia come «i nostri clown»), contro cui l’allora Isis aveva impegnato combattimenti ben più aspri dei fugaci scontri con l’esercito del regime.
La specialità dell’Is è il «treno di paura». I tagliagole di al-Bagdadi si ostentano spietati, infieriscono sul nemico, massacrano i prigionieri, sgozzano gli ostaggi. Poi distribuiscono via Internet i video di tali prodezze e si annunciano con tweet terrificanti a chiunque intralci loro il cammino. Si sono costruiti così una fama tale da terrorizzare non solo le popolazioni civili, ma anche molti dei militari che tentano di contrastarli: peshmerga curdi, milizie sciite sia esibite come tali che vestite da truppe regolari irachene, reparti speciali iraniani e «istruttori» americani sotto copertura.
Allo stesso tempo, i seguaci del sedicente vicario del Profeta sono impegnati nell’edificazione politico-amministrativa del «califfato». In vista di tale scopo lo Stato Islamico sembra aver assimilato i manuali di controinsurrezione e di intelligence territoriale dell’Esercito degli Stati Uniti. Il trittico «clear-hold-build» («sgombera-tieni-costruisci») applicato con dubbi esiti da David Petraeus e Stanley McChrystal in Iraq e in Afghanistan ispira l’approccio dell’Is agli spazi da emancipare. I risultati sono rimarchevoli, anche se finora le bande del «califfo» non hanno incontrato sul campo di battaglia forze in grado di imbastire una controffensiva strategica.
Il terzo termine della formula americana è chiave: build. Costruire lo Stato Islamico significa offrire protezione e servizi alla popolazione nella rigida applicazione dei precetti neo-wahhabiti, con la punizione esemplare dei reprobi e la liquidazione di «politeisti», «apostati» e altri miscredenti, tra cui le minoranze cristiane e yazide. L’organigramma centrale prevede, sotto al «califfo», strutture dedicate all’applicazione della legge islamica, alla sicurezza e alla guerra, con una burocrazia deputata ad annotare con acribia le attività delle istituzioni erette all’ombra del «califfo», a rendicontarne le partite economiche come gli esiti delle campagne militari. Si aprono scuole coraniche, allestiscono ospedali, formano corti islamiche e reparti di polizia religiosa.
Noi occidentali siamo impressionati dalla barbarie di quelle bande. Così anche parte delle popolazioni assoggettate. Ma diversi fra i recenti sudditi del «califfo», specie se di affiliazione sunnita, ne apprezzano il welfare e leggono nei vessilli di guerra intestati al Profeta un’opportunità di riscatto dalle persecuzioni dei regimi di Damasco o Baghdad. Ancora una volta, decide il punto di vista. Chi ci appare come feroce assassino non si sente affatto tale né è automaticamente considerato un nemico dalle comunità cui si rivolge. Nelle parole di Ed Husain, analista del Council on Foreign Relations di Washington: «Questi individui (...) non si vedono come radicalizzati o estremisti o comunque anormali. In effetti, si vedono come persone normalissime, perché in sintonia con quelle che considerano le aspettative di Dio» [3].
Ingegnosità strategica, fanatismo dei combattenti jihadisti, richiamo del marchio, disponibilità di risorse e organizzazione di un peculiare welfare islamista non bastano però a fare dello Stato Islamico una potenza regionale. Ventimila uomini impegnati su fronti estesi e impervi, dal Levante al Golfo, non sono una forza militare imbattibile. Come dimostra la sconfitta di fine agosto subita dalle bande del «califfo» ad Amirli – centro d’impronta turkmena e sciita collocato lungo l’autostrada strategica Kirkuk-Baghdad, appena a sud del territorio curdo – respinte da una fino a ieri impensabile coalizione di milizie sciite, pasdaran iraniani della Forza Quds guidati sul campo dal loro comandante Qassem Suleimani, peshmerga agli ordini del leader del Kurdistan iracheno Ma’sud Barzani, truppe regolari di Baghdad e cacciabombardieri americani, con il contorno di «lanci umanitari» da aerei francesi, britannici e australiani. A disegnare un ventaglio inedito di carissimi nemici, uniti per l’occasione dalla somma dei loro interessi minacciati dall’Is. E pronti a usare lo spauracchio di al-Bagdadi per avvantaggiarsi nella competizione regionale.
Decrittare senso ed eventuali prospettive della «coalizione di Amirli» aiuterà a stabilire se lo Stato Islamico è davvero il «mostro provvidenziale» evocato da Poter Harling, inventivo analista dell’International Crisis Group [4]. Ovvero un utile nemico. Per questo conviene ripartire dal contesto in cui ha fatto la sua apparizione.

4. Dimentichiamo il nostro caro vecchio Medio Oriente. Quello del conflitto arabo-israeliano, della competizione americano-sovietica per noleggiare lo sceicco o il ra’is di servizio, delle improbabili liaisons postcoloniali francesi, britanniche, financo italiane (non fummo noi a intronizzare Ben Ali a Tunisi e ad accomodare Gheddafi nelle sue megalomanie?) con i regimi «amici». Paradigmi scaduti. Come il Grande Medio Oriente evocato da Bush figlio per descrivere il campo di battaglia della «guerra al terrorismo». Il tentativo di riprodurre quegli schemi occidentali, venati di esotismo, recitati da petromonarchi addestrati a Sandhurst o a West Point, allevati a cioccolato e champagne nei collegi svizzeri e nelle università americane, è oggi deviante. Almeno quanto lo «scontro di civiltà» o le stenografie georeligiose, come la curiosa idea di una dar-al-islam compattamente schierata per attentare alle libertà occidentali, quando in quello spazio ci si massacra fino all’ultimo musulmano.
Il Medio Oriente esiste ormai solo come cartiglio mediatico. Comodo, ma analiticamente sterile. Evoca territori indefiniti fra Nordafrica e Asia centro-occidentale che non costituiscono più un insieme ammesso lo siano mai stati. Se fossimo costretti a dichiarare una cifra geopolitica per questa non-regione, sceglieremmo la frammentazione. Dunque una dinamica. Da studiare sullo sfondo del lungo periodo, attenti a non subire gli assalti della cronaca. Senza pretendere di attribuirle un segno positivo o negativo e soprattutto senza presumere di poterne determinare gli esiti. Troppo diverse le sorgenti, dall’esplosione demografica nella seconda metà del Novecento, in via di forte rallentamento, alla concentrazione urbana che ha intaccato secolari strutture patriarcali e tribali, dalle migrazioni all’esposizione allo stile di vita occidentale, dall’emergere di una gioventù frustrata nelle sue aspettative di benessere e di protagonismo eppure non sempre rassegnata, fino al fiorire, nel passaggio di millennio, di gruppi e sigle jihadiste. Ma anche di movimenti di massa, persino in ambito salafita, che rivelano la necessità di un nuovo rapporto fra religione e politica, specie nei regimi islamici più ossificati. A segnalare la crisi dei quietismi religiosi e dei conservatorismi (im)politici che per lungo tempo avevano celebrato matrimoni apparentemente indissolubili.
È di moda archiviare la «primavera araba» – marchio davvero sfortunato, istruttivo caso di sovrapposizione orientalista alle dinamiche endogene – come «inverno arabo» o «islamico». Errore grave. Le rivolte esplose quasi quattro anni fa in Tunisia e in Egitto, presto diffuse dalla Libia alla Siria, dal Bahrein allo Yemen e oltre, contro cui si è mobilitato un fronte controrivoluzionario centrato sull’Arabia Saudita e sui suoi emirati satelliti, non hanno affatto esaurito la loro spinta propulsiva. Se è vero che quel turbine sorgeva dai profondi mutamenti geopolitici, economici, culturali e sociali sopra accennati, conviene attendere prima di emettere sentenze affrettate.
La radiografia delle nervature geopolitiche e della temperatura sociale dalle sponde meridionali del Mediterraneo al Sahel e al Corno d’Africa, dalla Penisola Arabica all’Hindu Kush, rivela le molteplici fratture indotte dall’impatto di quelle dinamiche su architetture istituzionali fragili, delegittimate, spesso impotenti. La crisi della politica lamentata in Europa e negli Stati Uniti – lo stesso Obama bolla come «disfunzionale» il sistema politico di cui si offre leader [5] – tocca qui vette parossistiche, fino a ridisegnare la mappa geopolitica dei tenitori che per pigrizia e deficit di fantasia persistiamo a nominare Medio Oriente. Qui è in corso una competizione per la legittimità del potere interna ai singoli paesi e ai loro territori in ebollizione. Un rosario di partite domestiche intrecciate che coinvolge le potenze regionali e investe più o meno intensamente tutti gli attori di taglia internazionale, compresi coloro che amerebbero sottrarvisi.
L’epicentro dello scontro è il Golfo. Persico per l’Iran, Arabico per l’Arabia Saudita. Teheran e Riyad: i grandi duellanti, al centro della scacchiera. Ciascuno dotato di filiere d’influenza, alleanze informali o registrate, media amici e bande armate, molte delle quali bollate come terroristiche dall’Occidente e dalle burocrazie internazionali. La centralità del Golfo deriva dal suo tesoro energetico – le notizie sulla sua prossima irrilevanza risultano premature – e finanziario, oltre che dal patrimonio religioso (Mecca, Gerusalemme, Nagaf, per citare tre luoghi di irradiamento delle fedi monoteistiche). Il baricentro geoenergetico del pianeta stara pure slittando verso le Americhe, l’Africa e l’Asia, ma i paesi del Golfo, classificati dalla British Petroleum sotto la significativa sineddoche «Middle East», detengono ancora il 48% delle riserve globali provate di petrolio e il 43% di quelle di gas. Quanto alla finanza, nelle casseforti dei petromonarchi galleggiano imponenti ricchezze di matrice energetica, da cui le economie occidentali in drammatico affanno non possono prescindere. Soldi pesanti per la City e per Wall Street. Denari influenti negli opachi retrobottega delle classi politiche euroccidentali. Liquidità vera, invidia delle nostre tesorerie. Per stare ai fondi sovrani, quelli della Penisola Arabica (gestiti in prima linea da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Qatar) valgono il 35% degli omologhi asset mondiali. Se salta il Golfo, insomma, il nostro futuro sarà buio, freddo, misero.
Nella lettura corrente la rivalità irano-saudita configura due schieramenti regionali. Alla sfera di Teheran sono di norma attribuiti i regimi iracheno e siriano, lo Hizbullah libanese, Hamas e la Jihad Islamica in campo palestinese. Nel campo magnetico saudita troviamo Kuwait e Bahrein, insieme agli Emirati Arabi Uniti che spesso giocano in proprio, e l’Oman, molto più defilato. Con il Qatar, elettrone libero che scarrella verso l’orbita dei Fratelli musulmani, formano il Consiglio per la cooperazione del Golfo (Ccg). Inoltre, il «nuovo» Egitto del generale al-Sisi – ossia quello vecchio impegnato a spegnere i focolai della Fratellanza musulmana – e le milizie di riferimento in Libia, nel Corno d’Africa o in Afpak. Con la Turchia, frustrata nella velleità di transustanziare la «primavera araba» in nuovo impero ottomano sotto il sultano/califfo Erdogan, a inseguire comunque i suoi sogni di grandezza, illudendosi di governare le sue pedine in Siria o altrove.
Si configura così un mosaico di conflitti per procura accesi di volta in volta negli scenari di crisi, nei quali si dissanguano i referenti locali dei due grandi rivali. I quali scoprono di non poter sempre manovrare i presunti clienti, anzi di esserne spesso utilizzati. Il teatro siro-iracheno, dove incombe lo Stato Islamico, che le petromonarchie del Golfo immaginavano di usare a piacimento, è il principale campo di battaglia.
Restando alla vulgata, la faglia saudito-iraniana è marcata dalla rivalità religiosa in ambito islamico – sunniti contro sciiti – e dalla radice etnica – arabi versus persiani. Elevata a contesa di rango mondiale dall’asse anti-iraniano forgiato dalla strana coppia Israele-Arabia Saudita, caso forse unico di alleanza fra paesi che non si riconoscono ufficialmente. Con gli Stati Uniti a garantire a entrambi un ombrello strategico sempre meno credibile, riluttante, eppure mai rinnegato. E gli europei accodati in ordine sparso. Sicché I’Iran funge da catalizzatore in negativo di un allineamento arabo-israelo-occidentale del tutto inedito. Il quale ha il difetto di smentire il paradigma etnico-settario che sarebbe alla fonte dello scontro per l’egemonia sul Golfo. E di rilevare come spesso gli interessi nazionali (nel caso di Washington e Gerusalemme) e familiari (a Riyad) prevalgano sulle rivalità confessionali. Financo sui ben più antichi pregiudizi etnici.
Questa narrazione descrive importanti dati di realtà. Pecca però di semplicismo. Lo spartiacque sunniti-sciiti, ad esempio, non spiega tutto. Né corrisponde a una necessità storica, visto che le due principali correnti islamiche hanno a lungo convissuto in pace. È più conseguenza che causa delle rivalità geopolitiche. Nei conflitti di potere, il credo religioso e i fattori identitari in genere assurgono a leve di mobilitazione e di legittimazione. Le parti in causa usano poi dei vincoli transnazionali, come nel caso delle tribù interne all’orbita saudita, mobilitate a sostegno dei ribelli anti-Asad o della causa sunnita in Iraq.
Un’analisi più esigente parte dallo sfondo: la crisi di legittimità dei poteri. Nessuno ne è esente. Vale persino per l’Iran, che pure esibisce una statualità plurimillenaria, imperiale, e un assetto interno incomparabilmente più flessibile rispetto ai regimi arabi. Ma in Arabia Saudita è questione di vita o di morte. Qui lo Stato è patrimonio di famiglia. Ogni forma di islam politico – di politica tout court – è anatema. Corruzione della corte e grettezza dell’establishment religioso moltiplicano i germi corrosivi, nel clima di una disputata successione al trono, tra cenni modernizzanti dell’ormai morente monarca e resistenze ultraconservatrici a protezione dei gioielli di famiglia (petrolio e relativi conti all’estero).
Se la sfida del Golfo verte sul potere nelle e delle istituzioni formali o informali, conviene interpretare le convulsioni regionali partendo di qui. Dalla politica alla geopolitica e ritorno. Sotto il profilo politico-ideologico, i fronti esprimono due inconciliabili tendenze di fondo: rivoluzione o conservazione. Con mille gradazioni, sfumature, declinazioni diverse. Ma alla fine la contesa è fra chi intende cambiare, anche con la violenza, assetti sociopolitici figli di un passato che pare non aver più futuro, e chi vi si abbarbica. L’esito è incerto, salvo che nell’inevitabile ridisegno delle carte geopolitiche. Non è nemmeno sicuro che dalle collisioni in corso possa emergere un nuovo equilibrio fra Stati, e non invece ulteriore caos. O al meglio istituzioni di profilo inedito, purché dotate di una minima base di legittimità. Dunque di efficienza.
In termini geopolitici, la partita è fra revisionisti e sostenitori dello status quo. Gli schieramenti non sono netti. Attraversano Stati, comunità e sette di appartenenza. Memoria imperiale e cultura politico-religiosa inclinerebbero l’Iran e il mondo sciita – minoritario su scala panislamica quanto maggioritario nel Golfo – al revisionismo, a spese anzitutto dell’Arabia Saudita (e di Israele). Ma lo slancio rivoluzionario della Repubblica Islamica è evaporato da tempo. Posti di fronte al dilemma di Henry Kissinger, se l’Iran sia una nazione o una causa, opteremmo per la prima. Nessun dubbio invece sulla corte di Riyad. Né nazione né causa, se con quest’ultima non intendessimo la pura preservazione del tesoro di famiglia. L’Arabia Saudita è il baluardo della conservazione, che nel mobile scenario attuale, dove lo status quo appare quasi dappertutto in questione, significa solo reazione. Per la quale tutti gli strumenti servono, dall’attivismo regionale delle filiere tribali alle piogge di sussidi ai sudditi (in maggioranza allogeni), dalle leve energetico-finanziarie per comprarsi solidarietà e coperture ovunque possibile, Stati Uniti in testa, ai jihadisti remunerati per vie carsiche, che ci si sforza di controllare o almeno di tener fuori dei propri confini. D’intesa con il Ccg, sigla da sciogliere, all’atto pratico, come Consiglio per la controrivoluzione dal Golfo.

5. A che serve lo Stato Islamico in questa partita dalle mille facce? A seconda della maschera che gli vogliamo attribuire, svolge funzioni diverse. Come rivelatore, indica il grado di confusione e di stanchezza dei protagonisti interni ed esterni al sisma geopolitico nel Golfo allargato. La «coalizione di Amirli» è certamente improvvisata, probabilmente effimera. Ma segnala la disponibilità reciproca di Obama e Rohani – non necessariamente del Congresso americano e della Guida suprema Ali Khamenei – a un compromesso che reintegri la potenza persiana nel suo contesto geopolitico e nei circuiti economici globali, in cambio della verificabile rinuncia all’arma atomica e alla destabilizzazione del Golfo. Ciò implica il parallelo avvicinamento dell’Iran all’Arabia Saudita e a Israele. Impresa assai ardua, specie con il secondo, che della presunta sfida esistenziale proveniente dall’Iran ha fatto l’alfa e l’omega della sua geostrategia. Netanyahu è ai ferri corti con Obama, come confermato dalla terza guerra di Gaza. Il premier israeliano non considera l’Is una minaccia, ma un pericoloso diversivo tattico che potrebbe indurre gli americani al cedimento nei confronti dell’Iran. A tradire lo Stato ebraico. Forse non è un caso che Gerusalemme abbia aspettato il 3 settembre per includere lo Stato Islamico nella sua «lista nera» delle organizzazioni terroristiche. Nell’attesa che fra due anni Hillary Clinton espugni la Casa Bianca e riporti gli Stati Uniti all’abbraccio con lo Stato ebraico, Netanyahu non intende arretrare dall’alleanza con l’Arabia Saudita e il fronte controrivoluzionario arabo, in ossequio al principio per cui i peggiori nemici del mio peggior nemico sono i miei migliori amici.
Può Israele ancora usare l’Arabia Saudita? La domanda è legittima. A Riyad è in corso una revisione strategica. Il principe Bandar, architetto della dottrina per cui lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante era indispensabile per rovesciare al-Asad e dissanguare l’Iran, è stato dimissionato perché a corte si teme che nella sua megalomania il «califfo» miri a Mecca e Medina. Ad ogni buon conto, il re ha inaugurato la costruzione di una barriera difensiva al confine con l’Iraq, schierandovi trentamila uomini. Una Maginot nel deserto contro la catabasi dei «suoi» jihadisti, ormai inaffidabili.
La famiglia saudita condivide con Israele il disgusto per la fuga americana dal Medio Oriente. Non si fida più dell’ombrello Usa, tanto da lanciarsi in un frenetico programma di riarmo. E si guarda intorno, senza tabù, in cerca di alternative. Per questo ha riallacciato anche il dialogo con Teheran, che per ora procede sottotraccia, a singhiozzo. A giustificarlo, fra l’altro, l’imperativo di sbarrare la strada alle bande dell’Is e alla suggestione del suo marchio sul fronte domestico. Lo strumento incentivato per colpire i partner siro-iracheni dell’Iran si tramuterebbe così in leva per scendere a patti con Teheran. Nulla di definitivo, tutto di strumentale. Ma in geopolitica non ci sono punti, solo virgole e molte parentesi.
Nessuno più di Obama conferma questa regola. Il presidente è in fase nichilista. Non perde occasione di ripetere che il mondo è complicato, che l’America non può tutto. Confessa di invidiare i mandarini di Pechino, che viaggiano gratis verso il sorpasso degli Stati Uniti schivando i conflitti: «Non potremmo essere un po’ più come la Cina?» [6]. In piena guerra di Gaza ed emergenza «califfo» il presidente si rilassa sui campi da golfo si ritira per cinque ore a casa del suo migliore consigliere, il cuoco di famiglia Sam Kass, per festeggiarne l’addio al celibato [7]. Per lui il Medio Oriente conta poco perché, spiega, non è connesso all’economia globale. E perché l’America presto non ne avrà più bisogno, giacché le meraviglie dei patriottici idrocarburi di scisti la emanciperanno dalla dipendenza dai giacimenti altrui. Tesi entrambe da dimostrare.
Il problema di Obama è che nella tradizione americana il commander-in-chief non è un filosofo. È il capo della «nazione indispensabile», le cui Forze Armate sono in grado di sgominare qualsiasi sfidante. Ogni tanto il presidente se ne rammenta e ricorre al moralismo in bianco e nero, classico della retorica nazionale. Applicata di recente – pur svogliatamente, fra una ricaduta e l’altra nella contemplazione della vanità di tutte le cose – al «mostro» di turno. Chi meglio del «califfo» può incarnare il Male agli occhi del mainstream americano? Pochi giorni dopo aver comunicato di «non avere una strategia» anti-Stato Islamico [8], Obama ha dovuto apparecchiare in fretta e furia una «strategia» abbastanza confusa, promettendo di «degradare e distruggere» i tagliagole dell’Is, con il contributo di un selezionato gruppo di amici e clienti, appoggiati dalla sua aviazione e, più discretamente, da reparti delle sue forze speciali. Per colpa del «califfo» Obama è costretto a smentire se stesso. Il presidente che aveva giurato di non rimettere più gli «stivali per terra» in Iraq ci torna dentro almeno con un piede. Già oggi i militari Usa in Mesopotamia sono più di mille, destinati a crescere.
Eppure anche per Obama il «mostro» potrebbe rivelarsi «provvidenziale». Lo sarà se invece di slittare in una parodia della «guerra al terrorismo» 3.0, userà di questa emergenza per portare a buon fine la strategia abbozzata inaugurando il suo primo mandato, con la politica della «mano aperta» alla Repubblica Islamica che allora esibiva alla presidenza il poco accattivante Mahmud Ahmadi-Nejad: reintegrare l’Iran nella regione per stabilizzarla. Teheran come pilastro indispensabile in un nuovo equilibrio della potenza cui partecipino Arabia Saudita, Israele e Turchia. Quadrilatero improbabile, certo. Ma l’alternativa è caos. E guerre non facilmente contenibili nella dimensione locale. Forse a quel punto anche l’America intuirebbe di non potersi concedere il lusso del ritiro effettivo o anche solo percepito dalla scena mondiale senza pagare prezzi severi.
Di sicuro i primi a soffrirne saremmo noi, in Italia e nell’Europa più esposta ai venti di levante. Altre guerre del Golfo, contemporanee alla grave crisi con la Russia, alla somatizzazione della Libia, alla stagnazione nell’Eurozona e alla deflazione di casa nostra, potrebbero infliggerci il knock out definitivo. Del quale saremmo corresponsabili, non solo per omissione. Forse i cinesi viaggiano gratis e gli americani si sono persi nei labirinti del mondo. Solo noi, però, paghiamo per andare a sbattere contro il muro.
Note:
1. F. KEARNEY, «Abu Du’a [a.k.a. Abu Bakr al-Bagdadi]», Time, 4/4/2014, /time.com/70832/abu-dua2014-time-l00/
2. A. CROOKE, «Middle East Time Bomb: The Real Aim of ISIS Is to Replace the Saud Family as the New Emirs of Arabia», Huffington Post/The World Post, 2/9/2014.
3. Cfr. «Islamic Extremism and the Rise of ISIS (part I)», Council on Foreign Relations, 27/8/2014, www.cfr.org/middle-east-and-north-africa/islamic-extremism-rise-isis/p33377
4. P. HARLING, «Etat islamique, un monstre providentiel», Le Monde diplomatique, settembre 2014, www.monde-diplomatique.fr/2014/09/HARLING/50787
5. Cfr. TH. L. FRIEDMAN, «Obama on the World», The New York Times, 9/8/2014.
6. B. FENG, «Obama’s “Free Rider” Comment Draws Chinese Criticism», The New York Times, 13/8/2014.
7. J. STEINHAUER, «Obama’s Chef Shapes more than Menu», The New York Times, 28/8/2014.
8. «Statement by the President», 28/8/2014, The White House, www.whitehouse.gov/the-press-office/2014/08/28/statement-president