Federico Simonelli, Il Secolo XIX 22/9/2014, 22 settembre 2014
CARVERI PIENE, FABBRICHE VUOTE: IL DILEMMA DEGLI USA
MENTRE la Bce stenta a trovare soluzioni ad una crisi che sembra senza fine, la Federal Reserve americana ha il problema inverso: come ritirare efficacemente e senza scossoni gli stimoli all’economia introdotti da Ben Bernanke. Ma neanche il suo cammino, seppur in discesa, è privo di ostacoli e uno di questi potrebbe arrivare da una variabile economica spesso sottovalutata, quella rappresentata dalle carceri.
Se è infatti vero che la ripresa dell’economia americana è un dato di fatto e che il lavoro ha riottenuto vigore, quest’ultimo è però ancora afflitto da un serie di problemi: i lavoratori part time restano molti, il livello medio di retribuzione non si è alzato particolarmente e, nonostante ciò, i datori di lavoro occupano più tempo nel riempire le postazioni rimaste vacanti. Il tasso di disoccupazione è calato (oggi è al 6,1%), ma anche perché è calata la forza lavoro. La popolazione attiva negli Stati Uniti (chi ha un lavoro e chi lo cerca) è infatti scesa dal 66% del pre-crisi al 62,8% di oggi.
Il fatto che le fila degli inattivi vengano giornalmente ingrossate dalle politiche di carcerazione massiccia delle amministrazioni Usa non aiuta ad invertire la dinamica. Gli ex carcerati hanno difficoltà a trovare lavoro anche in un mercato lavorativo sano, su di loro rimane spesso uno stigma sociale e le politiche di reinserimento e formazione lavorativa sono carenti. Se Janet Yellen vorrà stimolare la ripresa a pieno ritmo dovrà porsi il problema, o meglio, dovrà porlo a Obama.
Gli Stati Uniti godono del poco invidiabile primato di Paese con la più vasta popolazione carceraria al mondo e spendono una cifra stimata intorno agli 80 miliardi di dollari all’anno per le carceri. I numeri e le dinamiche fanno impressione: la popolazione carceraria dal 1980 ad oggi è quadruplicata, il 61% della popolazione in carcere ha tra i 18 e i 39 anni, potenziali lavoratori nel pieno della loro produttività, e, soprattutto, il 60% dei detenuti è di origini ispaniche e afroamericane.
Per lungo tempo il tema delle carceri e della giustizia negli Stati Uniti è stato sinonimo di questione razziale (mai davvero sopita, come dimostrano i recenti fatti di Ferguson) e in effetti lo è ancora, ma le implicazioni economiche non sono secondarie: secondo uno studio del 2008 del Center for Economic and Policy research le condanne per i reati penali negli Usa spingono l’1% dei maschi bianchi fuori dal mercato del lavoro, percentuale che sale al 5% tra i maschi neri e al 6% per chi non ha un diploma.
Il tasso di incarcerazione tasso di incarcerazione (il numero di persone in carcere ogni 100mila abitanti) resta il primo al mondo, ma nel 2013 è calato per il quinto anno consecutivo: nonostante ciò la popolazione carceraria, cioè coloro che si trovano effettivamente nei penitenziari sotto giurisdizione statale e federale, è tornata a crescere, dopo quattro anni consecutivi di calo. Oggi stiamo a un milione e 574mila persone, a cui poi si devono aggiungere coloro i quali sono sottoposti a forme alternative di custodia. Un controsenso se pensiamo che il tasso di crimini commessi (comunque molto alto rispetto alla media europea) continua a scendere costantemente da 25 anni.
A settembre 2013 la Afl-Cio, la principale federazione di sindacati statunitense ha varato una risoluzione in cui richiede la fine delle politiche di «carcerazione di massa», prodotte dalla introduzione, negli ultimi anni, di minimi carcerari obbligatori molto lunghi per tutta una serie di condanne, anche non penali. Inoltre ha chiesto la fine della privatizzazione dei penitenziari e dei servizi carcerari. Secondo vari osservatori questo business, cresciuto negli ultimi anni, è legato a doppio filo alla crescita della popolazione carceraria e la motivazione è una e semplice: se le carceri private realizzano un profitto per ogni detenuto, avranno tutti gli interessi a che il numero di detenuti cresca.
E avranno tutti gli interessi anche a scegliersi i detenuti meno costosi, cioè i giovani e specie quelli afroamericani o ispanici, come dimostra un recente studio di Christopher Petrella, un dottorando dell’Università di Berkeley. Secondo uno studio di Mrdc, organizzazione no-profit newyorchese, più di un ex detenuto su due negli Usa è senza lavoro e questo, tra programmi di assistenza, perdita di entrate fiscali, mancate opportunità create, costituisce un vulnus serissimo per l’economia. La crescita negli States è ripresa è vero, ma se sarà duratura e sostenibile dipenderà anche da questo.