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 2014  settembre 23 Martedì calendario

CON GESÙ LA PROFEZIA SI FECE EVENTO CITATI SCAVA NEL CUORE DEI VANGELI


«Leggere un testo», ammonisce Pietro Citati alla fine del suo libro sui Vangeli, «è un’arte che abbiamo quasi dimenticato». Si direbbe che più il mondo si riempie di libri, di testi e di interpretazioni, più si rende palese questa singolare atrofia dello spirito, imprigionato in una rete di pregiudizi che corrodono il potere della parola, imprigionata nel suo significato più rapido e banale. Non c’è da stupirsi se la letteratura si è adeguata a questa perdita di potenza, perché la letteratura è pur sempre il riflesso fedele dei limiti e delle possibilità, storicamente variabili, dell’atto di leggere. Per fare l’esempio più evidente, oggi non esistono più dei poeti come Paul Valéry o Ezra Pound non perché manchi all’umanità la quantità di talento necessaria, ma più semplicemente perché quel tipo di scrittura, capace di creare l’inaudito portando sulle spalle interi secoli di tradizione, oggi sarebbe fatica sprecata. Nessuno o quasi sarebbe capace di afferrare il valore dell’implicito, della citazione nascosta e rivelatrice. E per un elementare principio di economia, ben presto si smette di fare ciò che il nostro prossimo né capisce né apprezza.
Tutto sommato, se l’impoverimento della lettura fosse un fenomeno esclusivamente letterario, si tratterebbe di un fatto circoscritto, e forse rimediabile, perché la sostanza stessa della letteratura è la solitudine, e il singolo individuo ha sempre il potere di liberarsi dalle costrizioni del suo tempo. Molto più spinosa è la questione della lettura dei cosiddetti testi sacri, che per essere tali sono anche il fondamento di identità collettive. La barbarie di ogni tipo di fondamentalismo consiste esattamente nel fatto che si brandisce in faccia al mondo, e si erige ad unico criterio di verità, qualcosa di cui non si capisce nulla al di là dello stretto significato letterale.
Nitido e sobrio come il distillato di lunghe meditazioni, il libro di Citati rappresenta prima di tutto una scommessa sulla possibilità di restituire il loro sapore massimo a parole incrostate fin dall’infanzia nella memoria di tutti. Tanto più preziose, quanto più l’abitudine non fa che spingerle sul bordo pericoloso dell’insignificanza. Con tutte le sottigliezze di cui noi moderni andiamo fieri, «se ci paragoniamo a un sacerdote ebreo o a un fedele cristiano del primo secolo, siamo immensamente rozzi e limitati».
Che cosa avevano quel sacerdote ebreo e quel fedele cristiano che noi, sapendola infinitamente più lunga di loro, non possediamo più? Ebbene, leggendo questi Vangeli secondo Citati (non saprei come altro definirli) ci si rende conto che per quegli uomini antichi, quasi incomprensibili ai nostri occhi, era rimasta intatta l’originaria alleanza fra la memoria e la scrittura. Altrimenti, né gli autori dei tre Vangeli sinottici né Giovanni avrebbero scritto così, confidando in un uditorio capace di afferrare al volo sia la superficie del nuovo annuncio, sia il suo ricchissimo retroterra.
In gioco, prima di tutto, sta la capacità di riconoscere tutte le molteplici ombre che dal Vecchio si proiettano sul Nuovo Testamento, in quel sorprendente gioco di anticipazioni e adempimenti che il grande Erich Auerbach rese evidente studiando il concetto medievale di «figura». Nulla si può capire delle vicende di Gesù dimenticando che, in quanto Messia lungamente atteso dalla tradizione giudaica, egli è il compimento delle profezie, finalmente riempite dalla luce salvifica della verità.
Prendiamo una sezione del racconto evangelico sulla quale giustamente Citati insiste molto: la Passione. È una storia che basta evocare la parola, e ci torna tutta intera in mente, come ce la immaginiamo noi o come l’abbiamo vista nei film di Pier Paolo Pasolini o Mel Gibson. La morte di Cristo è indubbiamente un fatto eccezionale, uno spartiacque della storia umana. Ma in che senso è profondamente diversa dalla morte, per esempio, di Socrate ? Gesù e Socrate sono entrambi dei maestri nel senso più alto del termine, dei guaritori di anime, dotati di una percezione sottilissima del prossimo. Entrambi subiscono un’ingiustizia esecrata da un manipolo di discepoli ed accettata da una società capace di macchiarsi di un tale delitto pur di ritornare all’ordine. Ma a differenza di quella di Socrate, la morte di Cristo era un fatto che simboli e profezie avevano annunciato da tempo immemorabile. Il nuovo evento non si limitava a irrompere nel tempo umano senza dare la possibilità di essere riconosciuto da coloro che erano in grado di esercitare la memoria e il senso delle sottili corrispondenze tra il passato e il presente. E dunque, il racconto della Passione rischia di essere deformato e almeno in parte «normalizzato» dalla dimenticanza di alcuni passi biblici (nel libro di Isaia e nel Salmo 22) dove si parla del «Giusto sofferente» e delle prove che gli sono inflitte.
È vero che Cristo, in qualche modo, distrugge le profezie nel momento in cui ne rivela la pienezza del senso, ma è solo all’interno di questa dialettica tra il passato profetico e il nuovo patto di redenzione proposto all’umanità che il suo agire e il suo patire diventano comprensibili.
Il bello è che, per un certo tempo, nemmeno Cristo stesso legge bene la sua storia. Quando chiedeva a Dio perché lo avesse abbandonato, «non era arrivato all’assoluta conoscenza», come osserva Citati. «Come il Giusto di Isaia e dei Salmi , l’uomo soffriva e veniva abbandonato da Dio; ed egli doveva essere uomo fino alla sventura assoluta». Potremmo affermare che con la venuta di Cristo lo Spirito non si è insediato tanto nella carne umana quanto nelle parole del Vecchio Testamento, conducendo entrambe al di là dei loro limiti.
Potrà stupire il lettore che conosca l’immensa cultura di Citati il suo limitarsi, quasi ascetico, ai quattro Vangeli canonici. Non solo il suo esercizio di lettura non si avvale degli Apocrifi, ma non c’è traccia in questo libro di quel Cristo gnostico che a metà del secolo scorso uscì dai papiri di Nag Hammadi con una tale forza di persuasione da turbare i sonni di più di un credente ortodosso. Ma Citati non è solo il grande tessitore di arazzi, capace di tenere in mano innumerevoli libri come altrettanti fili che danno forma alle sue visioni. Con i Vangeli, ha usato un metodo che non gli è meno congeniale: quello dello scavo in profondità, tanto più efficace quanto più spronato dal desiderio di meditare su argomenti dai quali sembra impossibile ricavare qualcosa di nuovo e personale.
Non gli si può dar torto: non esiste una storia che sopravviva da sé senza che qualcuno si prenda la briga di raccontarla ancora una volta. Altrimenti, potremmo cadere nel tipico equivoco umanistico di credere vive, in base al loro semplice prestigio, cose che sono già avvizzite e morte da tempo memorabile. Nemmeno i Vangeli sono al riparo da questo rischio.