Marino Bartoletti, Libero 23/9/2014, 23 settembre 2014
I SEGRETI DELL’ASINARA
[Indagine sul passato oscuro d’Italia viaggiando nell’isola delle vite perdute] –
L’ASINARA Quanti volti può avere un libro di storia? E, incredibilmente, quali e quanti profumi? Cosa possono raccontarti e insegnarti, nello stesso giorno, le pagine senza inchiostro di un severo carcere abbandonato, di un ossario doloroso e inatteso coi resti di migliaia di prigionieri «nemici», di una foresteria rosso sangue tanto modesta quanto toccante e gravida di coraggio, di un ovile diroccato ma mai privato della sua dignità, di uno splendido bosco di lecci selvatici fra gli arbusti mediterranei, di un castello austero e irraggiungibile che fu abitato dal pirata Barbarossa, del tenero sguardo di una somarella bianca che protegge il suo puledrino, del silenzioso fragore di una cella con tre porte di ferro, di un mare così turchese da ubriacarti di stupore, di una vigna ormai sterile eppure tenacemente fiera, del volo a pelo d’acqua di un branco di mufloni che sembrano delfini, di un tramonto da toglierti il fiato? Di un’isola benedetta dal Signore e (per fortuna?) trascurata dagli uomini...
Lo confesso, non ero mai stato all’Asinara. Da quando, quest’estate, ho colmato questa lacuna (con le persone giuste) mi sento un uomo più ricco. Non sapevo che all’Asinara, quasi cento anni fa, fossero stati deportati 25.000 prigionieri austroungarici della Prima Guerra Mondiale che gli «alleati» serbi ci avevano affidato per lavarsi le mani del fastidio di uno sterminio. Non sapevo che il famoso «carcere di massima sicurezza», quello riadattato al culmine della brutalità mafiosa degli anni 90, potesse «parlare» a distanza di decenni coi soli muri ormai spogli delle sue celle, coi suoi sfregi avari di speranza, con le sue mute testimonianze, col sibilo del vento nei suoi cortili. Non sapevo che mi sarei tanto emozionato nel rivedere la piccola caserma nel quale si autorelegarono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (con le rispettive famiglie, pagando poi allo Stato il conto del vitto e dell’alloggio) per preparare il maxi processo che diventò la consapevole anticamera del loro martirio. Non sapevo (all’Asinara ci sono dieci carceri, per assecondare la «vocazione» per la quale venne espropriata alla fine del diciannovesimo secolo), che il concetto di «riabilitazione« dei detenuti fosse già così precocemente praticato dall’intelligenza e dal pragmatismo di uomini di buon senso, prima che gli scienziati del buonismo ne inventassero improbabili e masochistiche derive. Non ricordavo che la natura potesse essere tanto bella, varia, normale, emozionante, in poche decine di chilometri quadrati.
All’Asinara estrema punta nord occidentale della Sardegna, si arriva da Porto Torres e più velocemente, da Stintino, il paese fondato dalle 45 famiglie di pescatori, in parte sardi e in parte genovesi che vennero deportati in terra ferma in seguito al Regio Decreto del 1885 che pretese di dare a quell’angolo di Paradiso, la destinazione di colonia penale e di lazzaretto. Alcatraz, alla cui leggenda l’Asinara è stata spesso assimilata, sarebbe nata quasi 25 anni dopo. E avrebbe potuto raccontare solo la centesima parte di quelle favole.
Il nome dell’Asinara non deriva, come sarebbe facile pensare, dalla colonia degli asini che la abitano e la caratterizzano (per lo più albini, di curiosa origine egiziana: pronipoti, si dice, degli intraprendenti e raglianti superstiti di un naufragio che, nel tredicesimo secolo, raggiunsero l’isola a nuoto e lì vi si riprodussero): ma dal suo formato sinuoso, «Sinuaria» appunto, da cui la denominazione definitiva.
E fu davvero tanta la gloria per la piccola (e strategica) isola negli anni che affondano molto lontano e che portano alla contemporaneità: fenici, greci, egiziani, romani. Poi, naturalmente, le Repubbliche Marinare (Pisa e Genova). E i catalaniaragonesi, nei quali tanti sardi orgogliosamente si riconoscono, che fecero assaggiare alla flotta genovese la potenza delle loro micidiali, modernissime bombarde, devastandone e affondandone le veloci galere nel 1409. Persino Ercole assicura la mitologia la scelse per qualche sua bravata: anzi, fu proprio lui a staccare l’Asinara dalla Penisola della Nurra. E la strinse così forte che nella piccolissima strozzatura centrale (appena 170 metri) ci sono ancora le meravigliose sinuosità disegnate dalla sue mani.
All’Asinara si legge in filigrana seppur dal lato doloroso della medaglia la storia stessa del nostro Paese. Per farmi scoprire questo monumento “naturale” e farmene innamorare ci volevano dapprima lo stupore di alcuni amici (Bruno Vespa, Michele Mirabella, Gigi Moncalvo e Paolo Mieli); e poi i due ciceroni più attendibili il Sindaco di Stintino Antonio Diana (discendente di una delle famiglie allontanate dall’Asinara 130 anni fa) e l’ultimo capo delle guardie penitenziarie del carcere di massima sicurezza, il sostituto commissario Gianmaria Deriu. Sono stati loro ad aprirmi, con amore, passione e competenza (e col consenso del direttore del Parco Naturale, Pierpaolo Congiatu) le pagine di un libro che mai avrei potuto immaginare così sontuosamente attuale.
La prima cosa che si incontra sull’Isola è il celebre “supercarcere” di Fornelli: quello dei brigatisti Rossi (Curcio, Franceschini, ecc); quello dei camorristi “storici” (qui Raffaele Cutolo soggiornò e ci si sposò pure); quello dei boss della mafia all’apice delle sue espressioni più crudeli e cruente (a cominciare da Totò Riina, via via fino a Giuseppe Brusca, Gaetano Badalamenti, Leoluca Bagarella). Né mancarono galantuomini come il pluriassassino Renato Vallanzasca, o Sante Notarnicola (braccio destro del bandito Cavallero, poi primo della lista dei detenuti da liberare in cambio della vita di Aldo Moro), o Gianfranco Bertoli (l’autore della strage del 17 maggio 1973 alla Questura di Milano). E già varcando quel portone, già entrando in quei corridoi e in quei raggi, già camminando in quei cortili protetti persino da grate superiori per evitare l’«attacco» di eventuali elicotteri attrezzati per la fuga, ci si sente piccoli piccoli: comparse di un film quadridimensionale. «Lo vede questo pavimento rifatto sotto la porta della cella?» chiede Deriu che ha vissuto qui per trent’anni e che è il poliziotto che ha materialmente congedato l’ultimo detenuto il 28 febbraio del 1998 prima che il carcere fosse chiuso. «Venne fatto esplodere con ordigni che i brigatisti rossi costruirono con innocue caffettiere in loro dotazione, trasformate in bombe grazie all’esplosivo che le rispettive compagne avevano passato loro in bocca, baciandoli durante un colloquio. Si sfiorò la “guerra”: si sfiorò l’omicidio delle guardie prese in ostaggio e minacciate con punteruoli affilati come coltelli costruiti con le maglie delle reti dei letti». Quella “guerra” porta una data precisa: il 19 agosto 1978.
Gli insorti la “giustificarono” come azione di protesta per le severissime condizioni a cui erano sottoposti, ma che fosse in atto un piano di evasione è certificato dai documenti scovati successivamente durante un sopralluogo della Polizia a Roma, culminato con uno scontro a fuoco in cui rimase ferito Prospero Gallinari, assassino di Aldo Moro (nella cui 24 ore venne trovata la descrizione di un assalto da compiersi con «scafi e gommoni» e con «mitra e bombe a mano»). Il documento parlava di «80 compagni da liberare». Un vero e proprio attacco militare. «Ad ogni azione racconta Deriu dovevamo opporre una contro-azione, ad ogni astuzia spesso diabolica una contro-astuzia, rivedendo gli arredi delle celle, gli assetti dei parlatori, gli incroci delle ore d’aria, le abitudini più o meno consolidate e, per questo, vulnerabili». Nel 1977 il generale Dalla Chiesa ebbe l’incarico di coordinare anche la sicurezza esterna delle carceri (erano rimasti il «bunker» che poi avrebbe ospitato Riina e la struttura di Fornelli). Vennero scelte soprattutto guardie sarde: giudicate più incorruttibili. I terroristi, ascoltandole, si erano convinti che parlassero in codice. Totò Riina vi venne trasferito dall’Ucciardone di Palermo, dove esistevano locali con tappeti pregiati, poltrone in pelle e frigobar pieni di champagne. Spesso entravano donne molto belle e formose ammesse come «assistenti sociali». I boss avevamo mantenuto quasi intatto il loro potere. Le guardie erano affettuosamente sconsigliate a fare ispezioni, specie nell’infermeria. Quando Riina, alla fine del ‘95 arrivò all’Asinara in elicottero, atterrando sul vecchio campo di calcio polveroso attiguo al carcere dove in altri tempi e con altri livelli di attenzione i poliziotti giocavano a pallone coi detenuti, si ebbe la sensazione che lo Stato lo avesse finalmente disarmato. Che u curtu per la prima volta in vita sua non potesse più dare ordini. Ma non durò tantissimo. Appena un anno dopo (e c’è chi, come Marco Travaglio ne offre interpretazioni maliziose e documentate), tutti i mafiosi detenuti sapevano già che la morsa delle Istituzioni si sarebbe allentata. In cambio, probabilmente, di un «armistizio». E che il carcere dell’Asinara sarebbe stato chiuso, seppellendo nell’oblio la propria durezza. E la propria efficacia.
Il sostituto commissario Gianmaria Deriu è in pensione da due anni. Raccontale sue aspre favole ai fortunati che le ascoltano; favole che per fortuna si ammorbidiscono spesso nei ricordi più dolci, facilmente speziate da un ambiente naturale che ha ben poco da invidiare a quella che potrebbe essere la nostra idea pagana del Paradiso. Sa in quale caletta portarti; sa dove indicarti gli aironi, le pernici e i gabbiani corsi; sa dove farti arrampicare con la sua jeep per ammirare a Punta Scomunica il tramonto più incredibile. Sa come intenerirti raccontandoti di quando Manfredi Borsellino, giovane «prigioniero» per amore di suo padre, «evadeva» in moto la seraper vivere almeno per poche decine di minuti come un ragazzo della sua età; o di quando Giovanni Falcone, stremato dal lavoro e dalla crudeltà dell’autoreclusione, dopo aver consumato la cena che altri assaggiavano prima di servirgli, “fuggiva” a mezzanotte nell’unico bar esistente, cercando qualcuno per giocare a biliardo. «La mia, come quasi tutte le altre, era una famiglia che da pastori era diventata di pescatori» spiega Antonio Diana. E indica un monumento inatteso: una cappella che da sola si fa storia. Se se ne intuisce il senso di monito e di tragedia. Era il 1915. L’Asinara aveva intrapreso da trent’anni esatti il suo percorso di riconversione sanitaria e carceraria. Per certi versi quasi un progetto modello: detenuti in semilibertà (in quanto impossibilitati ad evadere: dall’isola, in più di un secolo sarebbe fuggito un solo prigioniero, il sardo Matteo Boe, nel 1986), impegnati in attività riabilitative legate alla pastorizia e all’agricoltura.
Nella parte settentrionale dell’isola restano le tracce degli ovili c dei terrazzamenti che strapparono alla roccia per i vigneti. Furono loro a contribuire alla costruzione del «lazzaretto» e poi dell’ospedale di Cala Reale. Quasi un posto di redenzione. Ma nel mondo, da più di un anno, in quel 1915 ci si macellava nel fango delle trincee e anche l’Italia era entrata in guerra. I serbi come erano ovviamente nemici degli austro-ungarici e dunque nostri, non richiesti, «alleati». Stretti a tenaglia da tedeschi, austriaci e bulgari, e costretti a ritirarsi verso la Grecia, pensarono bene di abbandonare a Valona quasi 24000 prigionieri (superstiti degli oltre 50000 che avevano portato con sé e che erano stato decimati da fame, tifo e colera) e di affidarli al nostro esercito. Qualcuno, fra il Ministero della Guerra e quello della Giustizia (non della Sanità), si ricordò dell’Asinara e così, dal novembre di quell’anno fino al marzo del 1916, iniziò un doloroso e crudele ponte navale che portò sull’isola quell’esercito di increduli disperati, in buona parte già infetti e gettati in mare durante il viaggio e in parte ben maggiore destinati a morire di stenti e di altre malattie durante la detenzione. Ne sopravvissero meno di 16000 in condizioni disumane. Di loro resta la dolente traccia nell’ossario di Stretti, silenzioso testimone di un’incredibile tragedia. Dopo aver congedato gli ultimi ospiti (dalmati e tirolesi dei cui cognomi esiste ancora traccia nell’entroterra sardo), nel 1919 l’Asinara cessò di essere una prigione «anche» militare: fatta salva la successiva deportazione di alcune centinaia di combattenti abissini catturati durante la guerra d’Etiopia, fra i quali, anche la figlia del Negus Ailè Selassiè (del cui alloggio esistono ancora i ruderi perimetrali)
Cento anni. Cento anni di storia non anestetizzata, ammaliata da un posto benedetto dalla bellezza. Una storia fatta di crudeltà e di rispetto, di furore e di compassione, di dolore e di pietà. Proprio quest’estate all’Asinara un bravissimo regista, Gianfranco Cabiddu (sardo, ma allievo di Eduardo De Filippo) ha ambientato il film di una trasposizione contemporanea della Tempesta, nella quale i veri protagonisti shakespeariani vengono sostituiti da un gruppo di guitti e camorristi che naufragano sull’isola: e lì fraternizzano, iniziando un gioco straordinario in cui si mescolano la necessità dell’arte, il senso di colpa, il riscatto e il perdono. Il film si chiama La stoffa dei sogni. Ma in futuro che fine farà quest’angolo di paradiso fertilizzato dalla crudeltà, dalla disperazione, dal sangue, ma anche dalla voglia di riscatto di buoni e cattivi? Ritroverà la sua vocazione che era quella non solo di punire, ma di migliorare gli uomini? Rimarrà un incontaminato parco naturale ai confini con la più anacronistica verginità? Mentre lo stai per lasciare, vorresti rifletterci, e fargli un augurio; ma un branco di cavalli bradi ti nitrisce in faccia la sua sfacciata felicità galoppando verso il mare. Quattro cinghialetti, forse orfani, scambiano per mamma una bella ragazza bionda. E le grufolano la loro riconoscenza, cercando il cibo nelle sue mani che intuiscono piene d’emozione e d’amore.