Vladimiro Zagrebelsky, La Stampa 21/9/2014, 21 settembre 2014
SENTENZA THYSSEN UN’INDIGNAZIONE NON GIUSTIFICATA
L’orribile morte a Torino dei sette lavoratori della Thyssen ha sollevato un’emozione e un’indignazione che giustamente accompagnano tuttora quel dramma nel quadro, anch’esso drammatico, delle morti sul lavoro in Italia: una routine tanto ordinaria e stabile da non richiamare più l’attenzione che merita.
Anche i ripetuti richiami del Presidente della Repubblica sembrano cadere nel vuoto. E se negli ultimi tempi il numero complessivo degli infortuni sul lavoro è diminuito, ciò è dovuto alla crisi economica e alla caduta dell’attività nell’edilizia, fonte prima degli incidenti. L’Italia resta il Paese europeo con il maggior numero d’infortuni sul lavoro. Ma occorre il fatto enorme, come è stato quello della Thyssen, perché almeno l’emozione si manifesti, se non anche le iniziative utili, come sarebbe il render più forte e professionale l’azione di prevenzione dell’Ispettorato del Lavoro.
Subito dopo il disastro è iniziata l’indagine giudiziaria per chiarire le responsabilità penali. L’indagine straordinariamente minuziosa e sagace ha messo in luce il grado di consapevolezza della pericolosità della situazione in fabbrica, da parte dei dirigenti della grande impresa. Le Corti di assise di primo e di secondo grado, con differenti valutazioni giuridiche sugli incerti confini di nozioni come quelle del dolo eventuale e della colpa con previsione, hanno condannato diversi dirigenti a gravissime pene, riconoscendo anche la responsabilità dell’impresa in quanto tale. Il caso giudiziario è divenuto oggetto di schieramento su terreni diversi da quello dell’accertamento delle responsabilità individuali. E alle voci disperate dei famigliari delle vittime, che sono passati dalla dichiarata soddisfazione allo scoramento e alla sfiducia nella giustizia, si sono contrapposti gli sconvolgenti applausi tributati ai condannati da una assemblea di industriali, persino accompagnati da preoccupato allarme per il futuro dell’industria in Italia. Tutto ciò lasciando sullo sfondo la gravissima vicenda umana e facendo di quella giudiziaria il terreno di scontro. Come se ai magistrati, da una parte e dall’altra si chiedesse di schierarsi. E’ un meccanismo di opinione pubblica che vediamo operare in Italia da lungo tempo ormai: distruttivo per le istituzioni repubblicane, tutte, non solo per quella giudiziaria.
Ora è giunta la sentenza della Cassazione, che ha affrontato com’è nel suo ruolo specifico, alcuni difficili problemi giuridici. Una precisazione è necessaria. In questi giorni è divenuta nota la motivazione della sentenza, non il tenore della decisione, che già era stato reso pubblico lo scorso aprile. E’ un difetto del sistema processuale italiano: il dispositivo è subito letto nell’udienza pubblica, mentre la motivazione segue, anche dopo molto tempo. E la stesura delle oltre duecento pagine di esame dei motivi dei ricorsi, anche in questo caso ha richiesto tempo. Cosa avviene nel frattempo? Senza conoscere i motivi che hanno condotto i giudici a adottare l’una o l’altra soluzione giuridica o valutazione di fatto, i commenti si affollano con le immaginarie ricostruzioni di ciò che i giudici hanno pensato e del perché e del percome. Una volta espressa una valutazione senza fondamento, difficilmente essa viene corretta con la lettura della motivazione che i giudici poi depositeranno. E così è avvenuto anche questa volta, riemergendo quell’immediata indignazione che francamente la sentenza della Cassazione non merita. Accanto ad altre questioni di grande importanza sul piano giuridico e per l’impatto che hanno sul terreno della valutazione penale degli infortuni sul lavoro, la Cassazione ha affrontato il problema della distinzione tra il dolo e la colpa in situazioni in cui la condotta è certo gravemente imprudente, ma l’evento dannoso che ne consegue non è voluto. E’ magari previsto come possibile, sperando che non si verifichi, o accettandone il rischio o invece fidando e pensando che in concreto non accada. Chi potrebbe negare che sia di straordinaria difficoltà la ricostruzione di simili sfumature di atteggiamento nella mente di chi deve rispondere dell’accaduto? Solo la motivazione della decisione giudiziaria consente di maturare una posizione, condividendola o criticandola. Ma non hanno senso gli schieramenti pregiudiziali, tanto più sulla base del solo dispositivo della sentenza. Nel caso specifico la Cassazione, con una motivazione la cui estensione potrebbe persino sembrare eccessiva rispetto alla stretta necessità giudiziaria, ha preferito adottare una posizione forse più restrittiva di quanto è stato solitamente affermato, restringendo il campo del dolo (eventuale) rispetto a quello della colpa (cosciente). Faccio riferimento a una preferenza non per suggerirne l’arbitrarietà o il capriccio, ma per segnalare che non si trattava di dimostrare, se si ammette il bisticcio, una dimostrazione, ma di discutere argomenti non univoci e persuadere della bontà, preferibilità della soluzione accolta. Perché l’elaborazione di concetti generali come quelli che erano in discussione (e che i redattori del Codice penale rinunciarono a definire, lasciandone l’onere alla giurisprudenza e alla dottrina) non ha nulla della certezza della dimostrazione matematica. L’adozione di una nozione da parte della Cassazione non significa che tesi diverse siano sbagliate. La coppia del giusto/sbagliato raramente ha cittadinanza nell’interpretazione della legge. Essenziale è la persuasività dei motivi, con cui il giudice spiega il fondamento della decisione. Nella descrizione minuziosa dell’evanescenza dei confini tra le due nozioni che erano in discussione e di tutte le difficoltà che comporta la ricostruzione dell’atteggiamento psicologico degli imputati, la Cassazione ha finito per indicare il criterio cardine della giustizia penale: nel dubbio prevale la soluzione più favorevole all’imputato. Non c’è vicenda, per quanto grave, che possa rovesciare questo principio.
Vladimiro Zagrebelsky, La Stampa 21/9/2014