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 2014  settembre 22 Lunedì calendario

JAMES ELLROY – VI RACCONTO LA PERFIDIA NEI GIORNI DI PEARL HARBOR

[Intervista] –
Cominciamo dalla fine. Alla fine della presentazione del suo nuovo romanzo Perfidia (ed. Knopf; in Italia sarà tradotto da Einaudi), in una libreria di New York, James Ellroy pretende che il pubblico gli chieda perché scrive. Sollecita la domanda e si risponde soddisfatto, decantando a memoria i versi della poesia In My Cratf or Sullen Art di Dylan Thomas: «In my craft or sullen art, exercised in the still night... (Nel mio mestiere o arte scontrosa, praticato nella notte immobile...)».
Thomas morì alcolizzato, Ellroy ha smesso di bere. Ma qui finiscono le differenze, almeno in termini di passione sfrenata per la scrittura, a giudicare da come l’autore del celebrato L.A. Quartet introduce la sua nuova opera: «Perfidia è un romanzo di 700 pagine, che si svolge nell’arco di 23 giorni, da sabato 6 dicembre 1941 al 29 dello stesso mese. In questo periodo di tempo le vite dei quattro protagonisti principali verranno cambiate incredibilmente per sempre. È un romanzo storico romantico, che racconta passioni, tradimenti, omicidi, vili ideologie che distruggono gli ideali americani. È l’epoca della grande ingiustizia dell’internamento dei giapponesi, dicembre 1941, immersi nell’incombente minaccia di un attacco. Passerete da un adulterio a un delitto, berrete, fumerete, correrete da un party all’altro, dove poliziotti poco raccomandabili si uniscono a stelle del cinema come Bette Davis». Aggiungiamo, giusto per chiarire, che il 6 dicembre un’intera famiglia giapponese, i Watanabe, viene trovata morta nella sua casa. E l’indagine su questa strage si intreccia con l’attacco a Pearl Harbor.
Perché - è la prima domanda del pubblico - questo libro adesso, su un’epoca precedente a quella di tutti gli altri suoi romanzi?
«T. S. Eliot diceva che nella mia fine c’è il mio inizio, e nel mio inizio la mia fine. Ho deciso di andare all’inizio della mia cronologia. Perfidia è il primo romanzo di un nuovo L.A. Quartet, che riporterà alcuni dei suoi personaggi indietro nel tempo, a un’epoca in cui erano considerevolmente più giovani».
Perché proprio Pearl Harbor?
«Da bambino ero così affascinato dalla Seconda guerra mondiale, che una volta mia madre fu costretta a chiarirmi che era finita prima della mia nascita. Ho visto nella mia mente le immagini della Los Angeles di quei giorni e ho sentito la necessità di scriverne. Volevo vivere la Seconda guerra mondiale sul fronte interno, attraverso personaggi che amo molto. Un momento particolare, in cui le tensioni razziali, religiose, sociali sembravano esplodere: la persona più ligia e morale del pianeta viveva alla distanza di un capello da quella più abietta. Tutto sembrava crollare».
Un’analogia con il caotico mondo del dopo 11 settembre?
«No, Perfidia non ha nulla a che vedere con qualunque cosa accaduta dopo il dicembre del 1941. Io conduco una vita di immersione monastica. Non possiedo un computer, non so come accendere un computer, non sono mai entrato nell’età digitale, non ho un telefono cellulare, non leggo i giornali, non vado al cinema, ignoro il mondo intorno a me. Per quanto mi riguarda, oggi siamo nel dicembre del 1941. Se volete fare comparazioni di rilevanza contemporanea con questo libro, siete liberi di farle con la mia benedizione, ma non avrete mai la mia conferma».
Come scrive, senza un computer?
«Vado a letto alle otto della sera e mi sveglio alle 2,45 del mattino. Sulla scrivania c’è l’outline del libro che sto scrivendo, nel caso di Perfidia 700 pagine di note e informazioni su quell’epoca, il blocco bianco, la penna rossa e quella nera. Sono come un pitbull che pregusta di azzannare il suo gatto. Scrivo a mano, senza passare alla frase successiva prima di essere convinto che quella precedente sia perfetta. La sovrastruttura reale del romanzo è sempre ben definita, e io poi cerco di costruirci su la miglior verosimiglianza possibile».
Il dicembre 1941 si prestava bene?
«Nelle note e nei ritagli di giornale raccolti dalla mia assistente, ho scoperto con piacere che non c’era una sola riga chiara sul fenomeno dell’internamento dei giapponesi americani, ad esempio. Tutto accadde nel caos, cosa che mi offriva la massima libertà creativa possibile».
Ci sono forti tensioni razziali, e anche religiose.
«È quello che ho vissuto da bambino, nella mia Los Angeles. Io sono un cristiano protestante, credo nell’esistenza di Dio, e penso che mi abbia salvato personalmente, una sera che ero malato e perso in una tempesta, e vidi brillare in strada la maniglia della porta di un caldo ufficio dove trovai rifugio. Sono cresciuto vivendo l’animosità religiosa e razziale, e quindi la racconto».
C’è anche un’aspirazione politica negli aspetti sociali della sua narrativa?
«Sono attirato dalla sinistra, dal fascino romantico della sinistra, instillato in me da alcune donne meravigliose che ho conosciuto. Il mio obiettivo politico e religioso, però, è l’apostasia».
Qualche critico ha intravisto sua madre, uccisa quando lei aveva dieci anni in un delitto mai risolto, in uno dei personaggi femminili di Perfidia.
«È vero. Lei è il mio paradigma della donna dai capelli rossi».
È soddisfatto di come i suoi libri sono diventati film?
«Ci sono alcuni film, come L.A. Confidential, che vuoi vedere, e altri, come Dalia nera, da cui vuoi fuggire. In generale, il denaro è l’unico regalo che nessuno ha mai mandato indietro. Il colore verde, e la misura large, si addicono a tutti. In genere, vedendo gli assegni che mi mandano, mi chiedo: cavolo, davvero mi stai dando tutti questi dollari per un lavoro che ho già fatto? Credo che nessuno rifiuterebbe soldi che arrivano dal nulla».
Perfidia, come tutti i suoi romanzi, ha un tono operistico.
«Giusto. Io ho imparato più dalla musica classica e dall’opera, che da qualunque scrittore abbia letto».
D’accordo, allora ce lo dica: perché scrive?
Ellroy risponde con i versi finali della poesia di Dylan Thomas: «Per gli amanti, le loro braccia, cinte agli affanni dei secoli, che non offrono lode o salari, né attenzione al mio mestiere o arte».
Paolo Mastrolilli, La Stampa 22/9/2014