Massimo Calandri, la Repubblica 22/9/2014, 22 settembre 2014
NERI ALLA META
L’altro giorno anche il vescovo Desmond Tutu ha perso la pazienza: «Credevo che l’apartheid fosse finito. Invece gli atleti neri continuano ad essere emarginati dalla nazionale sudafricana di rugby». Il premio Nobel per la pace ha scritto indignato ad un giornale di Città del Capo dopo l’ennesima sconfitta degli Springboks, che schieravano un solo giocatore di colore contro gli eterni rivali della Nuova Zelanda. «I bianchi sono il 10% della popolazione del paese, però si prendono il 90% dei posti nella rappresentativa. E perdono pure. Mentre ai neri non viene data la possibilità di mostrare il proprio valore. Adesso basta». Sì, ha ragione il vescovo: adesso basta. Da tempo il governo sudafricano pensava ad una svolta, ora è tutto ufficiale. Butana Kompehela, presidente della Commissione sportiva, ha confermato l’approvazione dello Strategic Transformation Plan, un piano governativo che prevede in tempi brevissimi l’introduzione delle “quote nere” nel rugby. Per i mondiali ovali del prossimo anno in Inghilterra, Heineke Meyer, allenatore (bianco) del Sudafrica, sarà obbligato a mettere in campo almeno 5 giocatori di colore su 15. Niente sconti, niente scuse: queste sono le nuove regole. E nell’edizione del 2019, i neri titolari dal primo minuto dovranno essere come minimo la metà. Di questi, il 60% “black african”, il resto meticci. Analoghe quote saranno istituite a tutti i livelli, dai dilettanti ai professionisti, per allenatori, manager ed arbitri.
Sarà davvero - come si augura il vescovo Tutu - la fine dell’ultimo, fantomatico baluardo dei vecchi coloni? Di sicuro è una rivoluzione ovale. Una rivoluzione cominciata con Errol Tobias. Fu il primo, nel 1981. Nelson Mandela avrebbe trascorso ancora nove anni a Robben Island e il rugby, come tutto il Sudafrica, era una cosa per bianchi. In cambio di una maglia, nel match di Newlands contro l’Irlanda, Errol accettò un ruolo non suo - il biondo Naas Botha si prese il numero 10, lui scivolò a secondo centro - senza fare troppo caso a chi lo chiamava “zio Tom” e si ostinava a non passargli l’ovale. Il primo Springbok di pelle nera si fermò a sei presenze. Poi Madiba lasciò la prigione e da presidente della nuova nazione arcobaleno, il 24 giugno 1995, celebrò la vittoria sudafricana ai Mondiali. La consegna del trofeo al capitano (afrikaan) François Pienaar divenne il simbolo della riconciliazione razziale del paese, come raccontato anche dal film Invictus. «È la vittoria di 43 milioni di sudafricani», disse Mandela. Allora i nonbianchi rappresentavano l’87%, ma anche in quella squadra c’era un solo nero: Chester Williams. Madiba, interpretato da Morgan Freeman, nella pellicola lo citava come chiave per l’integrazione. Ma nella realtà molti compagni lo guardavano storto, sostenendo fosse nient’altro che propaganda. «James Small mi disse: “Che ci fai qui? Questo non è un gioco per gente come te”. Mi diceva: “kaffir”», ricorda Chester. Kaffir, infedele. Così i mercanti di schiavi arabi chiamavano le loro prede. In Sudafrica vale un po’ come il nigger per gli americani, e nel 2007 lo stesso insulto è costato la panchina al ct Andries Markgraaff, un altro boero, sostituito alla guida dei Boks da Nick Mallett, più tardi allenatore degli azzurri. Ci sono volute altre tre edizioni iridate per avere appena due “coloured” - i meticci Brian Habana e JP Pietersen - tra i quindici in campo. Nell’ultimo match erano tre: Tendai Mtawarira, un pilone che chiamano la Bestia ed è originario del vicino Zimbabwe, Cornal Hendriks e il solito Habana.
Fikile Mbalula, ministro dello sport, ha chiesto di accelerare ulteriormente i tempi della “trasformazione”. Ma la verità è che in Sudafrica il rugby è ancora insegnato e giocato soprattutto nei college, mentre nelle zone povere e periferiche - a stragrande maggioranza nera - si preferisce il calcio. Nelle squadre che partecipano ai campionati ovali di alto livello gli atleti sono quasi tutti bianchi: il 76% nel Superugby, il 70% nella Currie Cup - ed è inevitabile che finiscano loro, in nazionale. «Servono buoni esempi per coinvolgere la popolazione nera», spiega Mervin Green, general manager della Saru, la federazione sudafricana. Dal prossimo anno il ct Meyer dovrà inserire almeno 7 giocatori di colore nei test-match di novembre (compreso quello contro l’Italia a Padova il 22 novembre). Nella squadra di rugby a 7 che parteciperà alle Olimpiadi di Rio la quota non sarà inferiore al 40%. Percentuali che cresceranno con il passare del tempo.
«Ma negli Stati Uniti mica ci sono delle quote per i bianchi nella squadra nazionale di pallacanestro», protesta Kallie Kriel, direttore dell’associazione Afriforum, che difende i diritti della minoranza afrikaaner. «È un’ingiustizia. Per tutti gli atleti, qualunque sia il colore della loro pelle. In questo modo non si farà che indebolire il rugby sudafricano». Due volte campioni del mondo, gli Springboks da più di tre anni perdono regolarmente le sfide con i rivali storici della Nuova Zelanda, gli All Blacks. I Tutti Neri, appunto.
Massimo Calandri, la Repubblica 22/9/2014