Giuliano Aluffi, la Repubblica 22/9/2014, 22 settembre 2014
TUTTI GLI INCUBI NASCONO IN FAMIGLIA
[Intervista a Chuck Palahniuk] –
«I miei genitori si separarono quando avevo quattordici anni. Ricordo che io e miei fratelli, che soffrivamo per questa situazione, ci consolavamo guardando Il cowboy con il velo da sposa , il vecchio film Disney dove due gemelle fanno di tutto per indurre i loro genitori a non separarsi. Ecco, volevamo fare lo stesso. Tra noi lo chiamavamo “fare il Kissinger”: quando papà e mamma litigavano, uno di noi si immolava fingendo una qualche emergenza che li distraesse e li facesse smettere. Io una volta arrivai a pestare volontariamente un chiodo a piedi nudi. Un giorno sono venuto a sapere di teologi del Millecinquecento che si prefiggevano di ingannare sia Dio che il Diavolo per farli riconciliare, mettendo fine a tutti i problemi della Creazione. Come noi coi nostri genitori». Così Chuck Palahniuk risponde alla classica domanda come nasce un suo libro, in particolare la trilogia di Madison Spencer di cui esce in Italia per Mondadori il nuovo capitolo, Sventura.
Il padre di Fight Club, il travet della trasgressione e dell’eccesso, l’autore di un’opera omnia che è una valanga di pagine scabrose, truculente e ironiche, come se la sua narrativa fosse un Pulp Fiction estremizzato, messo a velocità massima nel frullatore e schizzato addosso ai suoi lettori, racconta che è dalla famiglia che nasce tutto, semplicemente dalla famiglia. La tredicenne Madison Spencer (che nel precedente romanzo Dannazione era passata a “peggior vita”, finendo all’Inferno) ora imperversa in quel Purgatorio che è la Terra, spiando gli amati e odiati genitori prima di essere reclutata per la missione più importante dell’universo.
Perché ha scelto come protagonista una ragazza morta?
«È uno dei personaggi che amo di più. L’ho inventata mentre assistevo mia madre, che stava morendo di cancro. Siccome ero già orfano di padre, ucciso da un criminale impazzito di gelosia, mi rendevo conto che stavo per rimanere senza genitori. Sentivo di dover esorcizzare tutta questa tensione nella scrittura. Ma chi avrebbe voluto leggere di un cinquantenne depresso che rimpiange i suoi genitori? Così ho ribaltato la situazione: ho scritto di una bambina vitalissima, seppure fantasma, che, dall’inferno, sente la mancanza dei genitori, vivi, e cerca di riunirsi a loro nell’unico modo possibile: malconsigliandoli per farli finire all’inferno con lei. Come si vede in Sventura, i genitori di Madison cadono nell’inganno, addirittura fondando la religione che prevede l’ascesa celeste attraverso comportamenti riprovevoli».
Perché la volgarità e la crudezza hanno così tanta parte nella sua ispirazione?
«Sfrutto al massimo il mio mezzo. Mi spiego: i libri sono gli unici mass media che ti permettono davvero di comunicare qualcosa arrivando fino in fondo, fino all’estremo. Non è come un film, dove devi mostrare le cose e quindi incorri nella censura o nel rischio che una delle sue immagini raggiunga per sbaglio qualcuno che può scandalizzarsi. Nei romanzi non mostri cose, ma suggerisci parole. E il lettore, che è già un target più evoluto di chi guarda solo la tv, stipula con te un contratto assai più intimo e saldo rispetto a ciò che accade con gli altri mezzi di comunicazione: è lì col tuo libro, vuole leggere proprio te, sa cosa aspettarsi da te e lo accetta. Anzi, lo pretende. E così io regalo loro qualche piacevole o sgradevole shock».
Perché lo fa?
«Esporci a cose estreme, che cozzano con quanto siamo abituati a pensare, è uno sfogo che allenta la tensione. E poi è la trasgressione che mi ha reso scrittore».
In che modo?
«Quando a Portland lasciai il lavoro di meccanico per fare lo scrittore, frequentai dei workshop di scrittura. Ci andavano soprattutto tranquille signore di mezz’età. Un giorno scrissi una storia dove un giovane, durante un tentativo di amplesso, sgonfia una bambola gonfiabile che gli ricordava la sua ragazza e viene poi scoperto in questa situazione imbarazzante. La volta che lo lessi a voce alta davanti agli altri, fui cacciato dal corso. Ma l’insegnante mi consigliò di frequentare i workshop di Tom Spanbauer, uno scrittore che non si faceva spaventare dai temi scandalosi che amavo. Andai da lui e diventai me stesso».
Lei crede nel potere catartico dell’eccesso. Insomma, il suo non è uno sterile épater le bourgeois, ma una specie di pubblico servizio. È una visione del mondo piuttosto cinica, non pensa?
«Al contrario. Io mi sento un romantico. Certo, i miei personaggi, compresa Madison, mentono, manipolano e possono fare cose spregevoli. Ma lo fanno solo per essere amati, ricongiungersi con gli altri. O anche solo essere accuditi, come il protagonista di Soffocare, che si fa salvare la vita da sconosciuti per poter essere abbracciato e perché qualcuno si prenda cura di lui».
Quindi secondo lei in circostanze normali siamo asociali, anaffettivi, soli?
«Non lo so, ma so che mi attrae moltissimo il senso di fratellanza che nasce nelle situazioni estreme. Prenda il mio racconto Budella, contenuto nel libro Cavie . Quando lo leggo in pubblico, chiedo agli spettatori di trattenere il fiato il più possibile. Questo ha già fatto svenire oltre duecento persone. Io li vedo, quando inizio a leggere: tutti ancora lì seduti rigidi e infastiditi dal minimo contatto con l’estraneo della sedia accanto. Ma quando qualcuno comincia a svenire, succede il miracolo. La persona a terra diventa il centro dell’attenzione e delle cure degli altri. E quando riprende i sensi, si sparge un’incredibile euforia, come una piccola resurrezione di Lazzaro».
Giuliano Aluffi, la Repubblica 22/9/2014