Laura Putti, la Repubblica 22/9/2014, 22 settembre 2014
LENNY KRAVITZ
[Intervista] –
PARIGI
Un giorno sua madre lo strinse in un angolo e gli disse: «Voglio che tu sappia esattamente chi sei: uno diviso in due parti. Voglio che tu sia fiero di entrambe, e che le rispetti, ma sappi che questa società non ti farà essere altro che un nero». La madre di Lenny Kravitz si chiamava Roxie Roker, era un’attrice afroamericana — la Helen dei Jefferson in tv negli anni 70 — e nel ’62 aveva sposato il produttore televisivo Sy Kravitz, ebreo di origini ucraine ed ex Berretto Verde, dando vita a una delle prime e più criticate coppie miste dello showbiz. «Avevo solo sei anni e non mi sentivo di alcun colore. Più tardi ho capito». Kravitz, splendido cinquantenne, è seduto in un pomposo albergo a due passi dall’avenue Foch. Nero a metà (ma l’altra metà le ama bionde e smilze, da Vanessa Paradis a Nicole Kidman); metà di una religione e metà di un’altra (ma ha «Il mio cuore appartiene a Gesù» tatuato su una spalla); metà cantante e, da qualche anno, metà attore ( Precious, The butler) dà l’impressione di essere uno a proprio agio sia nell’albergone che nella roulotte in una piccola isola delle Bahamas (luogo d’origine della madre) nella quale, una ventina di anni fa, ha vissuto a lungo. L’isola si chiama Eleuthera e oggi ospita la sua casa e lo studio di registrazione nel quale ha registrato il decimo disco: Strut , in uscita domani (unica data italiana il 10 novembre a Milano). Un disco fatto in casa, scritto durante le riprese di Hunger Games nel quale era Cinna, lo stilista bisex di Jennifer Lawrence. Del primo singolo, The Chamber, circola un video che inizia con una frase attribuita a Nietzche: «Il vero uomo vuole due cose, pericolo e gioco. Per questo vuole la donna, il giocattolo più pericoloso» scriveva il filosofo forse dopo la fotografia nella quale, con Rilke, tira un calesse guidato da Lou Andreas Salomé con frustino. Anche la cattiva ragazza del video ha una frusta e, insensibile a pettorali e tartaruga addominale, a sesso e champagne e al debordante testosterone del povero guitar hero, alla fine gli spara sul Pont Neuf.
Questo il suo rapporto con le donne?
«La mia famiglia siamo solo mia figlia Zoe e io. Nel video ho voluto raccontare una storia che, certo, potrebbe avere riferimenti che conosco. All’inizio ho dato un titolo alla canzone: la stanza. Continuavo a ripetermi: c’è uno in quella stanza, ed è la metafora di un proiettile in una pistola. Avere fiducia in qualcuno che poi ti delude, prende le tue emozioni e il tuo cuore. Non è una fantasia, accade spesso».
Strut è un disco crudo, rumoroso. Come produttore ha scelto Bob Clearmountain: voleva un sound che andasse da Let’s dance di Bowie a Born in the U. S. A. di Springsteen?
«Questo disco aveva urgenza di uscire e ha fatto tutto da sé. È nato di notte. Avevo un sacco di cose da fare e il set iniziava ogni mattina tra le 5 e le 6. Ma qualcosa mi spingeva verso la musica, e la musica scaturiva facilmente. Ogni canzone è iniziata dal titolo. Mi sono costretto a vivere con il titolo, e questo ha portato molte connessioni. Di solito hai un’idea che poi cambia nel corso del tempo; questa volta invece era importante non lasciarmi sfuggire quell’”inicial feeling”».
Uno dei titoli è Sex, illustrato sul disco dal primo piano del suo, molto in evidenza sotto pantaloni di pelle nera.
«Mi è venuto in mente ascoltando un ritmo tosto, very sexy. In fondo tutti ne sappiamo qualcosa. In maniera naturale, animale, è parte di noi».
Strut chiude con Ooo baby baby di Smokey Robinson. Una cover...
«Una mattina verso le 5 l’ho sentita alla radio, mi è sembrata così bella, non la ascoltavo da anni e i suoi arrangiamenti mi hanno colpito. Ho pensato: sarebbe bello metterci anche quella canzone così classica. La suonerò per Smokey al più presto».
A parte qualche intervento del suo chitarrista Craig Ross, lei suona chitarra, basso, tastiere, batteria e percussioni. È un “control freak”?
«Il controllo non c’entra. È un’abitudine che mi è rimasta sin dal primo disco. Quando entrai in sala per Let love rule nell’89 ero talmente povero che non potevo permettermi di pagare altri musicisti e ho fatto tutto io. Incredibilmente, quella solitudine mi è piaciuta. Adoro ancora essere solo in mezzo ai miei strumenti: non me ne separo mai, li ho in tutte le mie case».
Lei è noto per averne, di case. E per rifarne: come va la “Kravitz Design”?
«Molto bene, grazie. La decorazione di case, condomini e alberghi è sempre stata una passione e non ho bisogno di essere in ufficio a Miami per creare e controllare i lavori. Siamo in contatto anche con fabbriche italiane, avete ottimi materiali di costruzione e arredamento. Quanto alle mie case, di recente il numero si è molto ridotto. Quella di Eleuthera è il mio luogo del cuore. La fattoria in Brasile (più di 400 ettari di coltivazioni biologiche nello stato di Rio, ndr) mi dà grandi soddisfazioni e trovo che lì la musica abbia ancora una grande energia. A Parigi vivo gran parte dell’anno; mi ispira la sua architettura, la sua bellezza, è una specie di fantasia estetica stimolante. Non ho più casa a New York, dove vive mia figlia, ma la trovo sempre una città fantastica».
Ha sostenuto con passione la prima candidatura di Obama. Il suo sogno di un’America più giusta e meno razzista dura ancora?
«È politica, che cosa ci si può aspettare? Puoi essere soddisfatto per una cosa e deluso da un’altra. Ma, certo, non è andata come avrebbe dovuto».
Laura Putti, la Repubblica 22/9/2014