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 2014  settembre 22 Lunedì calendario

BLOB NAPOLETANO


FATE PRESTO
IL SOLE 24 ORE

9 NOVEMBRE 2011
Il titolo con cui abbiamo deciso di aprire la prima pagina del Sole 24 Ore di oggi l’ho rubato a Roberto Ciuni e a un quotidiano glorioso, il Mattino di Napoli. "FATE PRESTO per salvare chi è ancora vivo, per aiutare chi non ha più nulla" titolava così, a caratteri cubitali, tre giorni dopo il terremoto del 23 novembre dell’80 che sconvolse l’Irpinia, migliaia di morti e una terra straziata.
Le macerie di oggi sono il risparmio e il lavoro degli italiani, il titolo Italia che molti, troppi si ostinano a considerare carta straccia: un «terremoto» finanziario globale scuote le fondamenta del Paese, ne mina pesantemente la tenuta economica e civile; la credibilità perduta ci fa sprofondare in un abisso dove il differenziale dello spread BTp-Bund supera i 550 punti e i titoli pubblici biennali hanno un tasso del 7,25%.
Le parole di ieri del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, sono nette: «Abbiamo bisogno di decisioni presto e nei prossimi anni per una rinnovata responsabilità e coesione nazionale». «Nuovo governo in tempi brevi o elezioni, l’Italia saprà serrare le fila». Mi ricordano, per intensità emotiva e fermezza, le parole appassionate di Sandro Pertini di ritorno dall’Irpinia nei giorni del terremoto: «Una bambina mi si è avvicinata disperata, mi si è gettata al collo e mi ha detto piangendo che aveva perduto sua madre, suo padre e i suoi fratelli». E, poi, scandendo bene: «Credetemi, il modo migliore di ricordare i morti è quello di pensare ai vivi».
Pertini, Napolitano, passando da Luigi Einaudi a Carlo Azeglio Ciampi, solo per fare qualche esempio, il buon nome dell’Italia, dagli anni della ricostruzione e del miracolo economico fino a quelli dell’euro e anche dei giorni nostri è stato sempre garantito da uomini che hanno saputo intrecciare intelligenza tecnica, visione e capacità politica. Possiamo (e dobbiamo) attingere anche oggi a quel capitale di risorse umane per fare in modo che l’Italia recuperi in fretta la fiducia del mondo. Per fare questo, come abbiamo scritto appena qualche giorno fa, non esistono scorciatoie fai da te, si impone la scelta di un governo di emergenza nazionale dove le forze politiche più responsabili (a partire dal Pdl di Berlusconi) decidano di investire su persone che, per la loro storia e i loro comportamenti, abbiano dimostrato di conoscere la lingua dei mercati e degli Stati e abbiano, quindi, le carte in regola per negoziare alla pari nel mondo e convincere gli investitori della solidità e affidabilità dei titoli sovrani italiani.
Questa è la via maestra, e a questo punto è anche l’unica via possibile per fare uscire il Paese dalle secche di un’emergenza drammatica e restituirgli il credito e l’onore che merita. Bene il maxi emendamento, bene la mobilità nel pubblico impiego, le pensioni di vecchiaia a 67 anni e i primi segnali su liberalizzazioni e privatizzazioni, sia chiaro però che non è sufficiente: lo si approvi ovviamente nei tempi più rapidi possibili con senso di responsabilità, ma non si rinunci (per nessuna ragione al mondo) a giocare la (vera) partita del futuro. Ricordiamoci che, nel breve periodo, anche quel po’ di crescita prevista per l’Italia non c’è più, così come è evidente che il nuovo, ulteriore differenziale di spread aggrava i conti di altri 3-4 miliardi. Il rischio che Europa e Fondo Monetario ci aggrediscano con la richiesta di nuovi interventi depressivi è reale anche perché risulterà problematico onorare, in queste condizioni, l’impegno del pareggio di bilancio nel 2013.
Per questo, a maggior ragione, cari deputati e cari senatori, cade sulle vostre spalle la responsabilità politica (dico politica) di garantire all’Italia un governo di emergenza guidato da uomini credibili che sappiano dare all’Italia e agli italiani la cura necessaria ma sappiano imporre anche al mondo il rispetto e la fiducia nell’Italia. Serve il vostro sostegno politico e la vostra spinta ideale perché si prendano quei provvedimenti complessi che restituiscano al Paese una prospettiva di crescita reale nell’arco di tre-cinque anni e convincano chi compra BoT (nel mondo e in Italia) che può tenere tranquillamente in portafoglio questi titoli perché saranno ripagati con gli interessi dovuti alle scadenze giuste.
Il Paese è fermo, paga il conto pesantissimo di un logoramento politico e civile che è durato troppo a lungo ed è andato al di là di ogni ragionevolezza. Le crisi finanziarie in genere, questa specifica che riguarda l’Italia in particolare, esigono un segnale forte di discontinuità che permetta di ripartire davvero. Nel ’93 il problema era l’inflazione e il governo Ciampi lo affrontò - come era giusto che fosse - con un occhio rivolto all’interno. Oggi il problema è la crescita e ci vuole un occhio rivolto all’esterno. Dipende da noi, solo da noi. Ricordiamoci che siamo sul filo del rasoio. Può andare molto male, ma anche molto bene. Fate presto.






25/5/2012
Come è possibile che il rilascio di un’autorizzazione sia regolato da una legge statale, da almeno ventuno leggi regionali e da circa ottomila regolamenti comunali troppo spesso diversi uno dall’altro? È possibile, purtroppo, accade in Italia. Schiacciata come è da quella muraglia impenetrabile stratificatasi nei decenni e mai realmente scalfita e, cioè, una burocrazia che per i soli adempimenti ci costa 45 miliardi in più rispetto ai migliori esempi nel resto d’Europa. Accade in Italia, dunque. Lo stesso Paese dove una piccola impresa-tipo deve far fronte a un total tax rate inclusivo di tutte le tasse e i prelievi, compresi gli oneri sociali, pari al 68,5% contro il 52,8% in Svezia, il 46,7% in Germania, il 37,3% nel Regno Unito. La carenza e i costi del credito, in casa nostra, sono figli di tanti padri e di tante colpe, alcune delle quali sono estranee alle stesse banche italiane, ma ciò non toglie che la realtà pesa come un macigno e ogni sforzo deve essere diretto a riattivare prontamente i flussi e a restituire alle imprese la liquidità necessaria. Nessuno, a partire dalla Cassa Depositi e Prestiti, potrà sottrarsi. Che cosa dire del fatto che sempre in Italia l’energia elettrica costa stabilmente, da almeno dieci anni, il 30% in più rispetto alla media europea e il prezzo del gas naturale ha registrato un progressivo divario che si è acuito negli ultimi anni?




12 giugno 2012
Prima è toccato alla Grecia, poi all’Irlanda e al Portogallo. Puntuale è arrivata la volta della Spagna. Tocchiamo ferro per l’Italia. Si può sostenere, con un minimo di ragionevolezza, che l’Europa esiste se si consente ai mercati di attaccare e colpire impunemente un Paese dietro l’altro? La risposta è no.
Questo giornale pubblica dal 5 giugno editoriali dei padri fondatori sugli Stati Uniti d’Europa per ricordare a tutti che il prossimo vertice di fine giugno non può essere il venticinquesimo consecutivo in cui non si decide nulla. Una sola citazione firmata Helmut Schmidt, ex cancelliere tedesco, può aiutare a inquadrare la situazione che stiamo vivendo: la grande Germania sta perdendo il senso della storia, del suo riscatto europeo e della solidarietà con i partner.
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• Schnell, Frau Merkel
Signora Merkel, così non può andare avanti. Non farà molta strada se continuerà ad essere indifferente alla rabbia dei greci, distante dall’orgoglio ferito degli spagnoli, dalle paure italiane e dalle angosce francesi. Tirare fuori 100 miliardi europei (di cittadini europei, una buona parte italiani) per difendere le banche spagnole e ritrovarsi con lo spread BTp-Bund a 473 punti (rendimento al 6,03%) e quello con i Bonos spagnoli oltre quota 520 (rendimento al 6,51%) è solo l’ultima spia di un allarme rosso che lei si ostina a volere ignorare. Non esistono vie alternative. Lo abbiamo già detto e scritto ripetutamente. Bisogna dare un messaggio forte ai mercati: l’Europa esiste, non salta, punto.
Il tempo delle parole è finito, con dieci anni di ritardo, il disegno di integrazione politica va portato a compimento attraverso scelte concrete, immediatamente operative. Almeno tre.
1 - Garanzia unica per i depositi bancari europei. A chi solleva problemi morali, non del tutto infondati, sulla sua introduzione, va spiegato che, in assenza di questo strumento, rischia di pagare di più anche chi si è comportato bene.
2 - Accesso diretto al Fondo salva-Stati (Efsf) da parte degli istituti di credito. Potrà sembrare un dettaglio ma non lo è: le turbolenze di ieri sui mercati sono figlie proprio della convinzione che gli aiuti arriveranno da un secondo fondo di stabilità, Esm, non dall’Efsf, e questo incide sulla qualità e il tasso di rischiosità dei titoli di Stato spagnoli.
3 - Unificazione dei debiti pubblici europei distinguendo (Paese per Paese) il carico degli interessi ma neutralizzando così l’azione della speculazione sui tassi dei titoli sovrani dei Paesi del Sud Europa (e non solo) che si è rivelata molto onerosa. Questo terzo punto è il più complicato. Si può raggiungere solo a patto che si scambi la protezione in comune con la modifica della Costituzione di ciascun Paese per cedere sovranità nazionale e acquistare sovranità europea sigillata da una nuova, vera carta costituzionale. Perché diventi realtà chi governa i singoli Paesi (Francia e Germania comprese) deve avere la forza di far capire ai suoi elettori gli indubbi benefici di breve e medio termine conquistabili con tale scelta. Può sembrare un processo ardito (di certo non è agevole) ma è addirittura obbligato se non si vuole fare la fine dei dieci piccoli indiani di Agatha Christie.

30 giugno 2012
Il rischio euro non è un problema di questo o quel Paese, ma è un problema europeo

24 luglio 2012
Dovendo fare i conti con un’Europa lenta e divisa e con troppi Stati che continuano a nicchiare prigionieri di grandi e piccoli calcoli elettorali, mentre Spagna e Italia pagano (molto) più del dovuto per collocare i loro titoli sovrani nella generale (colpevole/miope) indifferenza, c’è una via di uscita possibile anche nel breve termine. La Banca centrale europea deve fare la sua parte e deve farla subito. Bisogna cambiare radicalmente la logica e fare tesoro della lezione appresa nel 2010 quando si intervenne in misura insufficiente di fronte alla prima emergenza greca. Non si tratta di ripetere annunci di acquisti limitati di titoli di Stato, ma molto più semplicemente di dire con chiarezza ai mercati che si interverrà esattamente per quanto serve.
Se si troveranno la forza e il coraggio per farlo si spenderà meno e si salverà l’euro. Viceversa nessuno (dico nessuno) avrà di che gioire perché prima o poi anche i cosiddetti Paesi di serie A del Vecchio Continente faranno i conti con le macerie generate dalla loro miopia, la crisi globale si accentuerà così come le disuguaglianze.
Facile a dirlo, non a farlo. Si obietta: la Banca centrale europea non può attuare questo tipo di interventi, lo vieta la legge. La risposta è secca: non è così. A legittimarli sono precise ragioni di stabilità da tutelare all’interno dell’eurozona. La Bce opera, è chiamata ad operare, perché bisogna evitare i rischi terribili della deflazione legati al cataclisma dell’euro, occorre impedire che tutto si avvolga in una spirale recessiva e in un aggravarsi (non più recuperabile) delle posizioni debitorie riportando i tassi dei titoli pubblici spagnoli e italiani a un livello congruo.

29 agosto 2012
Il Sole 24 Ore ha deciso di prenderlo in parola. Ogni mese verificheremo lo stato di attuazione dei tanti provvedimenti strutturali del suo governo che sono destinati a incidere in profondità nella vita degli italiani. Sappiamo bene da che cosa partiamo visto che sabato 25 agosto abbiamo potuto documentare che il grado di attuazione del cosiddetto Salva-Italia (pensioni, Imu, lotta all’evasione) è al 30,1%, per la semplificazione (meno vincoli a imprese e cittadini a partire dalla certificazione unica ambientale) si è fermi al 4,7% e per l’ultima arrivata spending review (pubblico impiego, sanità, province, spesa per acquisti di beni e servizi) si è raggiunto l’1,9%.

27 settembre 2012
«Caro Tonino, non ti illudere, le quattro o cinque misure che hanno rovinato l’Italia le abbiamo già prese, non ci possiamo fare più niente, siamo condannati...» La frase è di Ugo La Malfa e mi è capitata di citarla già altre volte. Era un suo modo per tirar corto nelle conversazioni private con Antonio Maccanico sul futuro dell’Italia.
Al primo punto delle «quattro o cinque misure», riferisce l’amico Tonino, c’erano sempre le Regioni: «Vedrai, vedrai, saranno un moltiplicatore di clientele e di spesa pubblica improduttiva». Ugo La Malfa, come spesso gli capitava, aveva visto lungo, ma in questo caso le sue previsioni nefaste peccano per difetto: non solo sono aumentate le spese pubbliche improduttive e si è trasferito sul territorio, elevandolo (spesso) al cubo, il vizio di caricare sul bilancio pubblico ogni genere di clientela, ma si è riusciti nel miracolo assoluto di aumentare in un decennio la pressione fiscale "territoriale" sui cittadini del 50% senza diminuire (anzi è aumentata fortemente) quella centrale.
Pochi numeri sono sufficienti per percepire la gravità del fenomeno. Ce li forniscono Eugenio Bruno e Gianni Trovati, in un’inchiesta condotta dal Sole 24 Ore, e sono inequivoci: dalla nascita delle Regioni a oggi la pressione fiscale è balzata dal 27% al 44,7% e, in particolare, dal 2001 prima del debutto effettivo della riforma del titolo V al 2012 le tasse delle Regioni sono cresciute del 50% e quelle percepite dallo Stato, a livello centrale, del 31,6%. A fronte di tutto ciò, i costi della politica regionale, negli ultimi dieci anni, sono passati da 452,6 a 896,7 milioni l’anno. Distinguere caso per caso è sempre giusto e necessario, ma l’ordine di grandezza complessiva del fenomeno riassume algebricamente la dimensione (allarmante) della nuova questione statuale italiana che non si limita, evidentemente, ai costi diretti (abnormi) della politica.
Si era detto che il decentramento prima e il federalismo poi avrebbero accorciato la filiera tra cosa pubblica e cittadino e avrebbero reso più facile il controllo sulla gestione delle risorse. Non è stato così. Una volta aperta la nuova diga, la massa di acqua della spesa pubblica concentrata tutta al centro si è riversata in periferia travolgendo ogni argine di controllo e moltiplicando, parallelamente, il tasso di angheria burocratica sui cittadini e su chi vuole aprire un’impresa e i poteri di veto sui grandi investimenti infrastrutturali.
Far passare la spesa cattiva (tanta) per clientele e poltrone insieme a quella buona (poca) per i servizi a cittadini e imprese è stato un gioco da ragazzi. Viene da sorridere a pensare che sia stato un "Batman" di Anagni a doverlo smascherare. Non è più tempo di indugi e denunce folcloristiche (alzano grandi polveroni e tutto resta come prima) ma è tempo di azione. Il Paese, stremato dalla crisi, esige moralità ed efficienza che passano attraverso la via (obbligata) di un decentramento controllato. Fatti (subito) non parole.

10 febbraio 2013
Durante le feste di Natale ho ricevuto due telefonate che mi sono rimaste dentro. La prima è dell’ambasciatore, Antonio Puri Purini, scomparso venerdì sera, che mi colpì per la sua "indignazione civile" e per un parlare diretto "inusualmente urlato" per la mia conoscenza della persona. Mi dice: «Chiamo a nome di Ciampi, ci abbiamo ragionato a lungo e vorremmo coinvolgerla in un dialogo a tre su Europa e giovani per provare a parlare al cuore delle persone con il linguaggio della verità. Ma che Paese siamo diventati, è possibile far passare impunemente che l’Imu ci sia stata imposta dall’Europa? Abbiamo già dimenticato tutti i vantaggi che l’euro ci ha regalato e noi (non altri) abbiamo puntualmente sprecato? Vogliamo parlare della povertà culturale dell’informazione quotidiana della tv pubblica che compila notiziari politici da manuale Cencelli e trasmette ignoranza, altera i fatti spesso senza neppure accorgersene? Potremmo farne uno di quei libretti che il Sole offre ai suoi lettori insieme con il quotidiano... ». Ho risposto: «Grazie, ambasciatore, a lei e al presidente per avere pensato di coinvolgere anche me, purtroppo mi manca il tempo, ma andate avanti, proviamo a farne un dialogo lungo tra voi due per il Domenicale, sforzatevi di usare un linguaggio che i giovani possano capire». Qualche giorno dopo arriva la seconda telefonata, è di Carlo Azeglio Ciampi, mi dice tante cose come ormai avviene da molto tempo in un colloquio intenso tra noi due, ma mi colpisce, oltre al tono e alla voce che in quel caso avevano ripreso vigore, un passaggio, insistito e accorato, del ragionamento: «Chi ha responsabilità di governo, soprattutto in momenti di crisi come quelli che stiamo vivendo, deve avere l’umiltà di ascoltare le ansie e le preoccupazioni della gente e deve trasmettere a tutti la partecipazione necessaria perché si convincano che si farà interprete dei loro problemi e li affronterà. Si deve partire dal lavoro, dai giovani, si deve capire che lo si vuole fare davvero... ». Prendo l’impegno con il presidente che avrei scritto un piccolo corsivo di accompagnamento al dialogo tra lui e l’ambasciatore e oggi lo onoro. Il testo è arrivato venerdì mattina, di sera se ne è andato l’ambasciatore Puri Purini stroncato da un male incurabile, e assume ora il valore di un’eredità culturale, il senso più profondo di un desiderio e di un impegno civile che non possono morire.


24 febbraio 2013
Mi sono venuti in mente due episodi che ho già raccontato separatamente nei miei Memorandum della Domenica, ma sono convinto che messi insieme possano descrivere bene lo stato d’animo di molti degli italiani che si accingono a recarsi ai seggi, oggi e domani, e le loro aspettative di cambiamento. Sono cittadini che avvertono ogni giorno di più il peso della crisi dell’economia reale, lo sentono fuori e dentro casa, al lavoro e in famiglia. Sono cittadini che non rinunciano a scommettere su questo Paese, sanno distinguere comportamenti, uomini e responsabilità e hanno la consapevolezza che abbiamo scampato il pericolo più grande ma non siamo affatto fuori pericolo. Credono di avere il dovere di diventare più esigenti con se stessi e il diritto di essere governati da chi sa rispondere ai propri bisogni promuovendo e assecondando il cambiamento.
Il primo episodio risale a ottobre dell’anno scorso quando mi sono ritrovato, al Politecnico di Milano, in un’aula gremita di ragazzi e ragazze che sprigionavano vita. A un certo punto, viene citato un passaggio del discorso di uno studente che non riesco più a togliermi dalla testa: «Nel considerare la mia condizione, mi sono chiesto quale caratteristica mi accomuni a tutti gli altri giovani e studenti di questo Paese. La risposta più istintiva è stata la paura». Sono andato a cercare il testo integrale di quel discorso e ho potuto leggere le seguenti frasi: «Sui nostri pensieri incombono mille paure: paura di non riuscire a riscattare tutti i crediti, paura del contratto a progetto che scade; paura di non trovare, dopo gli studi, un lavoro all’altezza delle nostre aspettative o di non trovarne affatto». Inquietante, la conclusione: «Questa generazione, la mia generazione, ha paura del proprio futuro; non credo possa trovarsi un indicatore più significativo per certificare lo stato di malessere di un Paese». Il secondo episodio appartiene alle sequenze di uno specialissimo documentario, dedicato allo storico leader della Cgil, Giuseppe Di Vittorio, e riproposto davanti alla figlia Baldina, nel salone dell’Archivio Centrale dello Stato a Roma. «Lo voleva bene pure le pietre, non saccio come ha fatto a morì». Dice una voce di Cerignola, raccolta per le strade di Roma, nel giorno dell’addio a Di Vittorio, bracciante, figlio di bracciante, primo sindacalista italiano non ideologico. Fu lui a stringere un patto con i produttori, dentro le logiche del capitalismo, che guidò il mondo del lavoro sul sentiero dell’innovazione e contribuì a conquistare una prospettiva di crescita stabile e non assistenziale, soprattutto per i più giovani. Quella voce di Cerignola, a Roma, che si mescola con tutti i dialetti d’Italia, esprime la gratitudine per il coraggio delle sue scelte.
I giovani, il lavoro, l’economia reale. Questa è la sfida (vera) che il Paese ha davanti a sé e deve vincere assolutamente. C’è un filo che va riannodato in casa e in Europa per sciogliere le ansie e le paure dei nostri giorni. Bisogna tornare a mettere insieme la buona politica, uomini del fare, ceti produttivi e forze sociali, per ridefinire il perimetro dello Stato, eliminare la manomorta della burocrazia e collocare finalmente la manifattura, l’innovazione e la ricerca al centro della politica economica nazionale. L’interesse degli italiani è che domani sera dal voto emerga una indicazione di governabilità stabile in grado di realizzare progetti così impegnativi. Si deve avvertire il peso politico dell’Italia, fuori da semplicismi, trasformismi e nuovi conformismi, perché si attui in fretta il disegno degli Stati Uniti d’Europa, si combattano gli eccessi della finanza speculativa e si affianchi al rigore (necessario) la mobilitazione delle risorse indispensabili per stimolare la crescita.
Il Sole 24 Ore ha esaminato, punto per punto, i programmi di tutti i partiti su tutti i temi più spinosi, dalle tasse alla spesa pubblica, dal lavoro alla sanità, e così via, impegnandosi con un giudizio specifico (Rating 24) di efficacia e di realizzabilità. Abbiamo evitato di inseguire e offrire passerelle ai leader che hanno occupato ogni schermo e sito disponibili, sottraendosi a un confronto diretto e svicolando quasi sempre dai temi veri, ma ci siamo impegnati a dare il massimo delle informazioni utili per mettere il lettore nelle condizioni di fare una scelta con la (sua) testa e contribuire a rendere consapevole la più privata delle scelte pubbliche di un cittadino. Per vincere la paura e ripartire, ne siamo certi, il Paese si deve ricordare che cos’è e ha bisogno di una classe di governo che sappia riconoscere il suo capitale dimenticato e investa su di esso avendo l’umiltà di ascoltare e la capacità di fare.

29/3/2013
Quasi un giovane su due è senza lavoro, ogni giorno chiudono decine di aziende manifatturiere, l’insieme di prelievi fiscali e contributivi che grava sulle imprese (total tax rate) è arrivato alla cifra-record del 68,3%, il costo delle inefficienze della macchina burocratica su imprese e famiglie è stimata in 73 miliardi l’anno. L’irresponsabilità della classe politica europea combinata con la "farina avariata" cipriota mette a dura prova qualità e freschezza del pane europeo che è il suo risparmio.
Il "vuoto politico" italiano non aiuta se è vero, come è vero, che siamo noi i primi in Europa a pagarne il conto annullando in un mese un guadagno molto importante faticosamente conquistato sul mercato dei tassi dei nostri titoli di Stato. Il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo italiano viaggia verso il 130%. Una massiccia ondata di incagli rischia di trasformarsi in una nuova ondata di sofferenze sotto i colpi del pesante deterioramento della domanda interna e di un eccesso di rigidità imposto alle banche sane negli accantonamenti. Usciamo da anni di arretramento ma continuiamo a peggiorare in termini di produttività e le previsioni per il 2013 del prodotto interno lordo (pil) sono ancora significativamente negative rispetto a un 2012 addirittura terribile. Si attende lo sblocco dei debiti della Pubblica Amministrazione nei confronti delle imprese dopo che una stupefacente incapacità governativa di ascoltare ha trascinato fino ad oggi una questione che andava risolta almeno sei mesi fa. Sono in gioco decine di miliardi di lavori eseguiti e mai pagati dallo Stato (non incentivi) che potevano immettere nel sistema quel minimo di liquidità necessario per ricostituire almeno un po’ di fiducia. La stessa, identica, incapacità di ascoltare ha generato il "mostro" della nuova tassa sui rifiuti, Tares, lasciata marcire in un limbo di irresponsabilità che non promette nulla di buono né per i Comuni, né per i contribuenti, né per il servizio di raccolta nei territori.
Basta giochi, per piacere. Questa Italia esige rispetto, attenzione e, soprattutto, merita di essere governata. Lo chiedono i suoi giovani, il mondo della produzione tutto (piccoli, medi e grandi), le famiglie, i tanti, troppi quarantenni/cinquantenni che si ritrovano dalla sera alla mattina senza un lavoro. Serve un governo che attui la discontinuità necessaria rispetto a una linea di politica economica che va da Tremonti a Monti e si è sempre ben guardata dall’intervenire nel corpo vivo della inefficiente macchina pubblica per liberare correttamente le risorse necessarie ad avviare una riduzione dei prelievi fiscali e contributivi e, allo stesso tempo, alimentare un flusso costante di investimenti in conto/capitale, a partire dalla spesa per le infrastrutture. Non c’è più tempo da perdere, la saggezza, l’equilibrio e l’esperienza di Napolitano impongano a tutte le forze politiche (dico tutte) di cedere qualcosa per dare insieme molto al loro Paese e impedire a sciacalli, vecchi e nuovi, di lucrare sulle nostre presunte fragilità. All’Italia serve un governo che faccia qualcosa sul piano dell’economia nazionale, lo faccia subito e bene, mettendo a fuoco non interessi di parte ma l’interesse generale che coincide con l’avvio a soluzione della doppia emergenza del lavoro giovanile e della questione industriale italiana. Un segnale forte che spezzi (davvero) la spirale perversa delle paure contagiose in Italia e sappia farsi valere sul piano politico in Europa.
Perché qui (non altrove) si gioca la partita della ripresa e sempre qui si possono vincere le debolezze e le distorsioni di un disegno europeo pericolosamente incompiuto utilizzando, con intelligenza, le armi della politica. Non sono più tollerabili passi falsi come quelli ciprioti. L’Europa a senso unico (austerità, austerità, austerità) fa il male di tutti e va combattuta uscendo dal piccolo cabotaggio delle politiche nazionali e dei loro interessi (più o meno forti) a partire da quello tedesco.

14 aprile 2013
A metà settimana sono stato in visita al salone del Mobile, a Milano, e custodisco con me le facce di un’imprenditoria che non si arrende, dietro di loro ci sono aziende sane che soffrono ma non mollano. Lo so che il mondo si è globalizzato ed è (molto) cambiato, ma credo che un Menichella, un Carli, un Pescatore, anche nel vuoto aberrante della politica, non sarebbero rimasti con le mani in mano. Un’idea l’avrebbero avuta. Un esempio? Che cosa impedisce all’intelligenza tecnica di partorire, in tempo reale, un nuovo veicolo finanziario di diritto privato che metta insieme chi ci sta e possa offrire le competenze e la dote necessaria per garantire una serie di strumenti (partecipazioni di minoranza, finanziamenti a lungo termine, fondo di rotazione e così via) che possano mettere in sicurezza almeno le aziende italiane sane, sono tante, quelle che non hanno una crisi industriale, ma soffrono pesantemente il morso di una crisi finanziaria determinata da una persistente politica di restrizione del credito. Si può pensare come azionisti a un pool di banche o alla stessa Cdp, come socio di minoranza, o anche a soggetti economici terzi ma liquidi, o a altro ancora magari già esistente, l’importante è che lo strumento si faccia, sia in grado di approvigionarsi sul mercato estero della raccolta a prezzi vantaggiosi non per alimentare la liquidità e gli investimenti finanziari delle banche ma per sostenere concretamente le imprese sane meritevoli di credito. I tempi esigono fantasia e serietà, alla prova del fare, e lo chiedono alla politica e alla classe dirigente (tutta) del Paese per evitare che il senso condiviso dell’urgenza ceda il passo al senso di colpa del vuoto. A quel punto, non ci sarebbe più nulla da fare.


24 settembre 2013

Non so quanti hanno davvero seguito i lavori dell’assemblea nazionale del Partito democratico e si appassionino al balletto quotidiano di polemiche Renzi-Cuperlo, Renzi-Letta, Renzi-Epifani, e così via.
Questi comportamenti dimostrano (solo) che non c’è consapevolezza dello stato effettivo del Paese e chi li attua perde titoli per aspirare a governarlo. Prima che sia troppo tardi qualcuno si prenda cura delle "derive illusionistiche" di Renzi e aiuti lui e gli altri a studiare (con cognizione di causa) i problemi reali, ne trarranno giovamento tutti. Questa povera Italia di salvatori della Patria e di imbonitori ne ha avuti già troppi, non potrebbe sopportare il peso di un’altra generazione nuova di zecca.
Il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, ha ragione di sostenere che gli italiani meritano di sapere la verità sui conti, ma la smetta di indossare abiti rinunciatari o vittimistici (non si governa così il Paese) e sporchi le mani sue e dei suoi collaboratori per fare quello che nessuno finora si è azzardato a fare.
Cominci dalle cose più semplici: un decreto che permetta alle banche italiane di dedurre fiscalmente le perdite sui crediti alle aziende in un anno e non in diciotto (tocca a lui) può contribuire a salvare l’economia reale di questo Paese molto più di quello che si immagini (così come accadrebbe se si fermassero gli eccessi imposti sulle classificazioni dei crediti deteriorati, ma qui la responsabilità non è sua). Prosegua privatizzando tutto quello che è privatizzabile, soprattutto a livello locale e nell’immobiliare, faccia gli esami alle Regioni (una a una) smontando pezzo pezzo il ricatto delle mille burocrazie che bloccano (da sempre) il Paese, passi al setaccio tutte le Amministrazioni pubbliche centrali e tagli dove c’è da tagliare.
24 novembre 2013
Il 90% delle risorse liberate dalla spending review e dalla lotta all’evasione vadano alla riduzione del cuneo fiscale, il restante 10% all’abbattimento del debito pubblico. Abbiamo l’esigenza assoluta di fare ripartire l’economia, questa è la vera priorità, ma anche quella di ricordarci il carico di debito pubblico che grava sulle nostre spalle e rischia di ipotecare il futuro. Oggi la priorità, anche per ridurre il peso del debito, è il rilancio dell’economia, ma destinare direttamente al suo abbattimento una piccola parte (il 10%) delle risorse sane recuperate ha un valore di richiamo alla serietà, prima per noi stessi che per l’Europa. Ci ricorda quello che di sbagliato abbiamo fatto e non dovremo più ripetere.

8 dicembre 2013
Chi spiegherà agli italiani che devono diventare, nel loro interesse, un po’ più tedeschi, e chi spiegherà ai tedeschi che devon diventare un po’ più europei non per fare un favore a noi ma a se stessi?

24 dicembre 2013
Siamo i primi al mondo nel tessile, nell’abbigliamento, nei prodotti in cuoio e nell’occhialeria. Siamo i secondi al mondo nell’automazione-meccanica (macchine industriali, per gli imballaggi e di precisione), nei manufatti di base (ceramiche, metalli, prodotti in metallo e per l’edilizia) e nei manufatti diversi (articoli di plastica, design-arredo, mobile, attrezzature per la casa).
Siamo i sesti al mondo negli alimentari trasformati e custodiamo una serie di leadership sui prodotti di qualità della cosiddetta Altagamma. L’auto italiana ha vinto la sfida dell’internazionalizzazione, conserva primati nella fascia sportiva, soffre duramente sul mercato interno. Non siamo più solo nella siderurgia di base che vive da tempo giorni tormentati, primeggiamo negli acciai speciali e ad alto contenuto hi-tech. Non abbiamo più l’informatica ma competiamo nel mondo con i codici a barre bolognesi e una galassia di piccole stelle della provincia italiana di primaria grandezza tecnologica. Non abbiamo più la chimica di base ma tanti primati nella chimica di specialità e nella farmaceutica di qualità. Diciamo la nostra come costruttori di navi da crociera e nella tecnologia per l’aerospazio e la difesa.
Tutto questo, per capirci, è il frutto del sudore e della straordinaria capacità di investire in innovazione di uno specialissimo capitalismo produttivo italiano che non va confuso con i tanti che hanno fatto la loro fortuna saccheggiando lo Stato padrone e addentando la spesa pubblica, in una spirale perversa di vizi incrociati, quasi sempre creando ricchezza privata e distruggendo valore e cultura industriali. Il capitalismo italiano sopravvissuto è il cuore profondo della nostra economia reale che coincide con l’unicum della manifattura e vale 110 miliardi di surplus e circa 400 di esportazioni. Siamo secondi dopo la Germania, come documentano Marco Fortis e Valerio Castronovo, nelle classifiche settoriali Wto di competitività nel commercio mondiale. Così come nei servizi e nelle grandi reti, c’è un ritardo colpevole nelle telecomunicazioni e nel trasporto aereo, ma la "rivoluzione silenziosa" di Ferrovie e Poste e la forza dei player energetici in Italia e all’estero, delineano uno stato di famiglia vitale e combattivo.
Gli indici destagionalizzati dell’Eurostat ci dicono che il fatturato dell’industria manifatturiera italiana a settembre 2013 è caduto del 16,9% rispetto al gennaio del 2008. Nello stesso periodo il calo della Germania è stato del 2,8%. Sapete perché si registra questa differenza? Semplice: il fatturato domestico italiano (effetto crisi domanda interna) è sceso del 23%, quello tedesco del 6,3%. Per questo, contro i "declinisti interessati" vecchi e nuovi, ci permettiamo di insistere che la priorità per l’Italia se vuole (davvero) rialzare la testa sono il lavoro, l’industria, la domanda interna. Mi chiedo: vogliamo che chiuda anche il capitalismo delle multinazionali tascabili e della loro rete di micro-imprese che pagano un total tax rate abnorme, non hanno mai smesso di fare innovazione, subiscono ogni giorno il ricatto della burocrazia, remunerano il denaro (se lo trovano) più dei concorrenti internazionali e esportano, senza aiuti, per un valore pari alla metà della nostra spesa pubblica? Non credo che nessuno possa nemmeno pensarlo e, per questo, occorre spezzare il circolo perverso della «fatica sociale» di cui ha parlato ieri il premier, Enrico Letta, indicando e attuando, alla voce fatti, un percorso che tolga allo spreco pubblico nazionale e territoriale e sia capace di dare alle forze sane dell’economia di mercato e ai lavoratori che possono così recuperare reddito e potere d’acquisto.
Per questo, ripeto, insistiamo sulla necessità di dare corso effettivo all’impegno che tutto ciò che verrà dalla spending review e dalla lotta all’evasione vada in modo automatico a lavoratori e datori di lavoro.

Le luci in fondo al tunnel si intravedono, ma si potranno ingrandire sulla base di due fattori: il traino del resto del mondo, qui l’America ci aiuta e l’Europa molto meno, e la nostra capacità di farci trainare. Dipende da noi. Nessun settore dell’economia soffre la crisi quanto la manifattura: la pelle vecchia è stata scartata e la muta ha significato dolorosi ridimensionamenti. La pelle nuova riguarda solo una parte delle imprese ed è questo nucleo duro di eccellenze mondiali che non deve essere lasciato solo.
Proprio da qui può (deve) ripartire quella rinascita dell’economia che va usata e "spesa" come leva per ridare fiducia alla società. La chiave oggi è diventata la domanda interna stremata, che appanna la residua voglia di spendere, e va rianimata. Presidente Letta, ora più che mai l’Italia ha bisogno di una politica che sappia offrire agli italiani un percorso di risanamento e di crescita, un impegno effettivo a ridurre la spesa migliorandone la qualità (fare meglio con meno) e destinando i risparmi al taglio del cuneo fiscale, puntando a ridurre il peso del deficit attraverso l’espansione del denominatore (pil) non attraverso l’austerità fine a se stessa. Sappiamo che non è facile, ma sappiamo anche che non si può fare diversamente.

25 febbraio 2014
A noi interessa quello che il governo di Matteo Renzi saprà fare, null’altro, e lo verificheremo scelta dopo scelta. Il punto di riferimento, nel merito, è il decalogo del Sole 24 Ore e dal discorso programmatico (fortemente) irrituale di Renzi non mancano indicazioni che vanno nella stessa direzione. Sulle riforme istituzionali ed economiche è in gioco il futuro di un Paese che soffre da troppo tempo per consentirci di liquidare sbrigativamente slancio e passione.
Una cosa, però, deve essere chiara: di sicuro Renzi non potrà fare tutto perché il taglio a due cifre del cuneo fiscale (necessario e oneroso) non si concilia, ad esempio, con la tentazione ricorrente di un "assegno universale" (altrettanto oneroso), esiste un problema oggettivo di coperture ed è su questo punto (e tanti altri analoghi) che si misura il senso di responsabilità di un governo.
All’Italia servono scelte meditate e un metodo (nuovo) nella fase attuativa. Ciò che più ci ha colpito è una sensazione di sottofondo: ci è sembrato di ascoltare il discorso "irrituale" di un presidente del Consiglio chiamato a guidare l’esecutivo di uno Stato che non sa dove mettere i soldi, mentre lo Stato della Repubblica italiana sa bene di quanto ha bisogno ogni mese per pagare i suoi debiti. Anche Renzi non potrà non tenerne conto.

11 marzo 2014
Il Paese ha assoluto bisogno di recuperare la via maestra di interventi strutturali e regole certe a partire da un tratto (responsabile) di penna che cancelli in toto la riforma Fornero del mercato del lavoro perché ha aggiunto alla crisi globale e italiana un terribile di più tutto interno fatto di giovani passati dal contratto a termine alla più (brutale) disoccupazione e dal quasi contratto a termine alla scomparsa (altrettanto brutale) anche di quel sospirato primo contratto.
Il cumulo delle singole paure determinate da un atto di arroganza politica (professorale) ha generato un clima di sfiducia contagioso che ha influenzato e continua a influenzare non poco le aspettative di ripresa della nostra economia e della nostra società. Questo giornale non è stato mai tenero con la riforma Fornero e non farà mancare al presidente del Consiglio tutto il sostegno necessario se vorrà affrontare (davvero) i tanti, troppi tabù, che bloccano da tempo il mercato del lavoro, favoriscono chi un’occupazione ce l’ha rispetto a chi è costretto a cercarla fuori dal Paese, tutelano lavativi e privilegiati a scapito dei più bravi e volenterosi [...]L’emergenza italiana di oggi è tutelare il lavoro che rischia di saltare e offrire opportunità serie (in casa) ai giovani e ai tanti quarantenni che si ritrovano (incolpevoli) disoccupati premiando il merito e investendo sul futuro. Se per fare tutto ciò, presidente Renzi, dovrà ulteriormente tagliare incentivi e prebende alle imprese assistite, lo faccia senza indugi, risolverà un problema e contribuirà a far capire che si vuole cambiare davvero. L’impresa sana, di mercato, afflitta da fardelli burocratici e fiscali che non hanno pari al mondo, è stanca di pagare il conto di imprenditori spregiudicati, miopi e fortemente "agganciati" alla spesa pubblica improduttiva e alla classe politica corrotta che ne tira le fila.
27 aprile 2014
È paradossale che un giovane presidente del Consiglio, come è lei, indulga alla veduta corta, l’ansia di comunicare il risultato di oggi. Si imponga piuttosto una veduta lunga, si imponga di pensare al dopodomani e di spiegare perché si deve fare così e non come si è fatto fino ad oggi. Il problema non è abbattere le persone, ma smantellare i troppi uffici pubblici che continuano ad angustiare cittadini e imprenditori, per fare un ufficio unico che consenta di avviare in tempi ragionevoli un’attività di impresa o di avere un certificato. Questo è il cambiamento che l’Italia si aspetta da lei.

25 maggio 2014 (vigilia Europee)
Il dubbio di molti è che la Germania si sia appropriata di qualcosa che non le appartiene e l’impegno concreto deve essere quello di non arrivare al paradosso che venda a tutti ma non compri da nessuno. È bene che realizzi un surplus consistente e che anche gli altri Paesi ne accumulino vendendo di più all’estero, fuori dall’Europa, ma che cosa dobbiamo fare per spendere in casa questi surplus e fare crescere la domanda interna? Perché rinunciare a spendere questa ricchezza in Europa? La Cina e gli Stati Uniti hanno messo soldi nel sistema, hanno fatto una politica nel campo dell’energia, la Russia si muove a 360 gradi, e noi dove siamo? Che cosa facciamo? Questo è il punto.

27 maggio 2014 (dopo il voto)
Non indugi sul lavoro dove si è fatto un pezzo importante, ma se ne deve fare un altro ancora più rilevante sui contratti a tempo indeterminato e sulla flessibilità in uscita. Trovi il coraggio di ridurre il perimetro dello Stato, di riformare la giustizia e cambiare la macchina pubblica affermando, forse per la prima volta, reali criteri meritocratici e recuperando, per questa via, quelle risorse indispensabili per allentare il morso della pressione fiscale e contributiva su datori di lavoro e lavoratori. Rimetta in corsa l’Italia dentro quel sentiero (obbligato) di cambiamento che ci legittima a costruire, insieme con i Paesi fondatori, il cambiamento del Vecchio Continente ritrovando lo spirito solidale di Helmut Kohl («Voglio una Germania europea, non un’Europa germanica») che chiuda le cicatrici della storia e consegni al mondo globalizzato gli Stati Uniti d’Europa.

11 luglio 2014
Uscire dal bicameralismo perfetto e dire al mondo che il sistema elettorale italiano garantisce finalmente la governabilità, è senza dubbio positivo. Guai, però, a ridare troppi poteri nel nuovo Senato a quelle stesse Regioni che con il nuovo titolo V si vogliono ridimensionare. Anche qui la fatica di cambiare esige serietà e capacità di ascolto.

7 agosto 2014
«Ma Renzi le cose le fa o non le fa?». Questa è la domanda di oggi. Dopo il 40,8% nell’urna, un risultato politico storico che ha dato forza alla speranza, è arrivato il meno 0,2% del pil che segue il meno 0,1% del trimestre precedente e fa ripiombare l’Italia in recessione, con una stima annua di meno 0,3%. Alla domanda che tutti si pongono, dai vecchi saggi dell’Europa alla comunità degli investitori, imprese, famiglie, giovani, da ieri non fa più seguito la positiva attesa di qualche mese fa, ma un’aspettativa di semplice attesa. La capacità di Renzi e del suo ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, deve essere quella di agire, alla voce fatti, prima che questa aspettativa neutra si trasformi in un sentimento comune (pericolosissimo) di attesa negativa. Potremmo dire (Ritorno alla realtà, 16 maggio, Il coraggio della verità, 11 luglio) che siamo stati facili profeti, ma non lo faremo. Abbiamo l’interesse esattamente contrario: sappiamo quanto sia vitale che il Paese riparta, lo vogliamo come italiani, sappiamo che qui ci sono le competenze per cambiare con le proprie teste e con le proprie mani.
Servono investimenti interni ed europei, pubblici e privati, quelli veri, quelli possibili, non la farsa dei 43 miliardi annunciati all’Expo parlando dello sblocca-Italia. Serve un disegno di sviluppo condiviso che metta al centro l’investimento e Renzi deve dimostrare di averlo e di essere capace di realizzarlo. Mille giorni, bene, ma per fare che cosa? Chi ci osserva da fuori vuole capire se l’Italia è in grado di gestire situazioni difficili e la risposta non può non essere un disegno organico di azioni che riguardano l’economia e vengono comunicate e attuate in tempi certi.


30 agosto 2014
I l bonus da 80 euro non ha portato la scossa auspicata all’economia italiana, ma vendite al dettaglio in caduta del 2,6% rispetto all’anno scorso, nuovo balzo della disoccupazione (12,6%) e l’Italia in deflazione dopo oltre mezzo secolo.
Non eravamo d’accordo con quella scelta e lo abbiamo detto subito. Il Paese esige serietà: la stessa somma poteva, da sola, consentire di cancellare il conto dell’Irap sul costo del lavoro privato. Un segnale così forte avrebbe tutelato gli investimenti in essere nazionali e esteri, probabilmente ne avrebbe attratti di nuovi, di certo avrebbe segnalato al mondo che stavamo cambiando per davvero.
La fiducia delle famiglie italiane non si "ricostruisce" con 80 euro in più in busta paga, ma dando un lavoro a chi l’ha perso e una prospettiva ai nostri giovani. Il mondo "brucia", l’Europa ha le sue colpe gravi, ma noi non ci dobbiamo mettere del nostro e dobbiamo fare in casa le cose giuste. In gioco ci sono il futuro del Paese e la dignità delle persone.