Michele Farina, IoDonna 20/9/2014, 20 settembre 2014
ESSERE MAMMA AL TEMPO DI EBOLA
Una notte al piccolo ospedale di Pujehun, in un angolo remoto della Sierra Leone, stavamo andando a salutare Paolo e Chiara ancora impegnati nella stanza della pediatria. Camminando per il corridoio nella luce fioca del generatore io e Luigi, il fotografo, abbiamo sentito un rumore di passi. Una mamma, ho pensato. Le mamme vivono all’ospedale, gestito da Medici con l’Africa Cuamm(leggi il blog Cartoline dall’Africa), con i bambini piccoli: di solito arrivano da qualche villaggio sperduto in mototaxi, in tre su una moto, con un figlio mezzo moribondo e un fagotto di pochi averi. Dormono nei letti con i bambini che soffrono per lo più di malaria cerebrale, anemia, denutrizione, se li coccolano in silenzio, ogni tanto li mollano per sistemarsi i capelli o prendere una boccata d’aria, chiacchierare sulle seggioline in fondo al corridoio. Per questo ho pensato che quei passi strascicati fossero di una mamma. Invece, girato l’angolo, ci siamo quasi scontrati nella penombra con due infermieri senza camice che portavano qualcosa di lungo e di stretto avvolto in un telo.
Sembrava a prima vista un tronchetto d’albero, un palo. Non un essere umano. Invece era il corpo di un bambino di sei anni. Provate a immaginare quanto pesava, quel pacchetto che gli infermieri hanno adagiato su un lettino in una stanza vuota, in attesa che il mattino qualcuno lo seppellisse. Li ho seguiti, ho visto una giovane con una maglia bianca e la faccia rassegnata che piangeva in disparte. Era arrivato che pesava nove chili, ci hanno detto più tardi il dottore e l’ostetrica, Paolo Setti Carraro e Chiara Maretti. Sei anni, nove chili. Con le cure era riuscito a ingrassare un po’, sembrava migliorare. Il dramma, ma anche il furore. Perché quella madre non ha portato prima suo figlio all’ospedale? Chiara, fumando una delle sue “sigarette tristi”, dice che pensavano di “tirarlo fuori”. ma i casi di malnutrizione grave sono delicati. Non basta alimentare. Anzi. Rischi di peggiorare la situazione. È un bilanciamento difficile, senza una terapia precisa. In una settimana ho sentito spesso questa espressione: “tirare fuori” qualcuno. Significa salvarlo.
Un grande chirurgo milanese e un’ostetrica di Varese insieme a “tirar fuori” bambini in tutti i sensi, dalle pance e dalla morte, in un Paese che mentre cerca di rinascere da un passato cronico di guerra civile viene colpito dall’emergenza Ebola. Se non ci fosse stato l’Ebola forse io e Luigi Baldelli non saremmo andati a Pujehun. Nel gergo degli operatori, non so se posso scriverlo, posti così sono chiamati “culandia”. Nel più nobile linguaggio di don Dante Carraro, da vent’anni guida di Cuamm, è la filosofia dell’“ultimo miglio”. Andare a operare in strutture esistenti, fianco a fianco con il personale locale (Chiara con orgoglio dice di essere iscritta all’albo delle ostetriche sierraleonesi). Paolo l’ha già fatto in Sud Sudan."Quando è riesplosa la guerra civile - racconta - l’ospedale di Lui si è riempito all’inverosimile. Con Ebola è accaduto il contrario". Letti vuoti, camerate deserte nelle poche strutture sanitarie della Sierra Leone. È questo l’incredibile scenario che si incontra viaggiando dalla capitale Freetown verso est, le zone epicentro dell’epidemia che nei tre Paesi più colpiti (Liberia, Guinea e Sierra Leone) ha fatto oltre 1.200 vittime e continua a dilagare.
Mentre le organizzazioni di emergenza sanitaria come Medici Senza Frontiere denunciano la latitanza del mondo davanti a questa crisi e faticano ad aprire nuovi centri per gli infettati, la paura del virus ha tenuto la popolazione lontana dai pochi ospedali, e intanto i bambini muoiono di malaria o di altre patologie, le mamme di parto. La Sierra Leone è il Paese con il più alto numero di “morti materne”, per complicazioni legate al parto (oltre mille ogni centomila, in Italia meno di cinque). Qui la cosa peggiore che può capitare a una ragazza è aspettare un bambino. Anche essere bambini è un bel rischio: "Nel nostro distretto ne muoiono 800 all’anno di malaria" dice Setti Carraro. Per questo Cuamm, nel 2012, ha deciso di far partire un progetto a Pujehun: maternità e pediatria nel piccolo ospedale pubblico costruito con fondi Unicef, e supporto alla fragilissima struttura sanitaria dispersa su un territorio dove non ci sono strade e la maggioranza dei giovani è analfabeta per via della guerra civile che ha imperversato per un decennio.
Su questo “paziente” in via di lentissimo miglioramento è piombato lo spettro di Ebola. Paolo e Chiara si sono trovati in mezzo. Hanno deciso di restare accanto al personale locale che non è scappato, aumentando le misure di protezione dalla zona del triage alla sala operatoria (doppi guanti, occhiali, stivali). "Dopo una flessione di presenze, le partorienti e le mamme con i figli hanno cominciato a tornare". Magari all’ultimo momento, come questo bambino di pochi giorni che sta in braccio alla mamma Doreen, sedicenne: "Ha fatto quattro ore in mototaxi con un piede fuori" dice Chiara. Ma non potevano coprirlo? dico io. "Cos’hai capito: il bambino stava nascendo, aveva il piede fuori nel senso che penzolava dalla sua mamma! Pensa che al telefono ci avevano annunciato soltanto che stava arrivando un parto podalico". Si ride anche, in fondo all’ultimo miglio di Pujehun.
I medici e le infermiere che arrivano qui dall’Italia prendono uno stipendio dimezzato rispetto a quello che lasciano. Alessandro Rocca, il logista, è “mister tira la cinghia”. Si sono spese alcune migliaia di euro per allestire il campo di isolamento per sospetti malati di Ebola all’interno dell’ospedale principale. E’ molto difficile convincere il personale ad assistere i pazienti. L’epidemia fa paura soprattutto al di là del fiume Moa, che durante la stagione delle piogge da qui è raggiungibile con una barchetta. Il 70% delle vittime del virus sono donne: sono loro che curano i malati a casa senza protezioni, sono loro a preparare i funerali, sono le infermiere in prima linea negli ospedali. Tra le vittime non contabilizzate ci sono invece molti bambini. Come quel pacchetto lungo e stretto, sei anni nove chili, che ci è venuto incontro una notte nella luce fioca del generatore.