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 2014  settembre 22 Lunedì calendario

SCIOPERI E TOURNÉE IN GIAPPONE: GLI ULTIMI SCONTRI CON L’ORCHESTRA


ROMA — Muti e l’Orchestra dell’Opera, storia di un idillio che si è sgretolato nel tempo. Il direttore aveva sempre difeso i suoi musicisti, alle prove li contagiava col suo modo di fare, rigore e aneddoti. Ma le tensioni sindacali esplose quando è emerso che la realtà economica non era quella dipinta dall’ex sovrintendente De Martino hanno messo fine all’intesa. Le gocce finali sono state la minaccia di sciopero a febbraio, a poche ore dalla «prima» della Manon Lescaut , che segnava il debutto assoluto di Anna Netrebko nel teatro romano; l’aggressione nel suo camerino di una dozzina di dipendenti in cerca di solidarietà; la tournée di tre mesi fa in Giappone dove non ha partecipato una ventina di orchestrali, tra cui il primo violino Vincenzo Bolognese (balzato alla cronaca per la busta paga da cui risultavano 62 giorni lavorativi in sei mesi). Una delle rare occasioni di visibilità internazionale per la Fondazione lirica romana (a proposito: cosa succederà ora per il secondo invito a Salisburgo?).
Il giorno dopo la denuncia degli sprechi, Muti ha fatto togliere il proprio volto dal manifesto che campeggiava sulla facciata dell’Opera, con il quale si voleva spingere la campagna abbonamenti. Muti l’aveva sempre detto: «Resto fino a quando ci sono le condizioni per lavorare bene». Non ne poteva più delle tensioni sindacali. La guerra sembrava conclusa, dopo il sì dei dipendenti al referendum di venerdì scorso sull’approvazione del piano industriale, che mette al riparo il teatro dal rischio della chiusura a causa dell’enorme passivo della passata gestione. Muti ha capito però che sarebbero tornati gli incubi degli scioperi selvaggi da parte di Cgil e Fials, che nei volantini hanno scritto: «Non andate a votare, questo referendum non è valido». C’è come un misto di cinismo, di indifferenza o di inconsapevolezza nel boicottare dall’interno le occasioni di prestigio di questo teatro.
Dice Paolo Terrinoni, il segretario di Roma e del Lazio della Cisl (la maggioranza favorevole all’accordo): «Abbiamo sempre cercato di dare serenità, non a Muti ma al teatro, che era a un passo dall’essere liquidato. Qualcuno dovrà farsi un esame di coscienza». Sia il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini che il direttore generale Salvo Nastasi, hanno telefonato a Chicago, dove si trovava Muti, provando a convincerlo a rimanere a Roma. Muti è stato irremovibile, ritenendosi offeso sul piano umano e professionale.
Nella lettera non dice che non tornerà più a Roma, ma conoscendolo, sarà molto difficile che in futuro vi metterà piede. E dopo la rottura col San Carlo della sua Napoli, Muti potrebbe non lavorare più in una Fondazione lirica italiana. Nastasi (che è il principale obiettivo dei sindacati, come ispiratore della legge che ha anteposto la qualità rispetto alle rivendicazioni obsolete), dice che «è arrivato il momento di rivedere il confine tra corrette relazioni sindacali e tutela del pubblico e degli artisti. C’è una soglia oltre cui non possiamo andare. Se le turbolenze arrivano fino al punto da far scappare Muti, c’è qualcosa che non funziona. Bisognerà affrontare in maniera definitiva il ruolo dei sindacati nei teatri lirici italiani».
V. Ca.