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 2014  settembre 20 Sabato calendario

LE ACROBAZIE DI CHURCHILL E I MOLTI TRASFORMISMI ITALIANI


Ignoravo che l’eroe della Seconda guerra mondiale Sir Winston Churchill fosse stato eletto al Parlamento britannico per la prima volta nel 1901 tra le fila del partito conservatore per poi passare armi e bagagli dopo tre anni tra le fila del partito liberale, dove restò per una ventina di anni per poi ritornare tra i conservatori e continuare la sua lunga carriera politica. Significa che il «trasformismo» non è una prerogativa solo italiana, se addirittura si è verificato a così alto livello e in un Paese di così forte tradizione bipolare, oppure ci sono altre spiegazioni che giustificano i cambi di campo dell’illustre statista d’Oltremanica? Mi aiuta a comprendere meglio?
Francesco Valsecchi

Caro Valsecchi,
Quello di Churchill non fu trasformismo, ma l’effetto di una combinazione fra impazienza e irrequietudine che caratterizzò tutta la sua esistenza. Quando terminò gli studi aveva di fronte a sé tre possibili strade. Poteva fare la carriera politica sulle orme del padre, uno dei maggiori esponenti del partito conservatore nell’Inghilterra vittoriana ed eduardiana. Poteva fare la carriera delle armi, a cui era stato preparato sin dagli anni della scuola. Poteva essere giornalista e scrittore. Non fece mai una scelta netta ed esclusiva, mescolò e incrociò i suoi talenti saltando spesso da un ruolo all’altro, e fu per parecchi anni, con grande imbarazzo del suo partito, il più imprevedibile degli uomini politici britannici. Commise molti errori, fra cui il maggiore, probabilmente, fu la fallita spedizione di Gallipoli contro i turchi quando era primo Lord dell’Ammiragliato, all’inizio della Grande guerra. Ma li pagò uscendo di scena per un esilio più o meno lungo e tornò sempre in campo ringiovanito e irrobustito. Supporre che Churchill abbia «attraversato l’Aula» (come viene chiamato in Inghilterra il passaggio da un partito all’altro) per convenienza, significherebbe attribuirgli calcoli che non erano nella sua natura.
Mi chiedo d’altronde se il trasformismo abbia sempre avuto la connotazione negativa con cui viene generalmente ricordato. Il fenomeno si manifestò in Italia dopo la riforma della legge elettorale e la vittoria della Sinistra nelle elezioni parlamentari del 1876. Del suo leader, Agostino Depretis, un giovane contemporaneo, Ferdinando Martini, scrisse che era preoccupato dai possibili effetti della partecipazione di nuovi strati sociali alla vita pubblica. Temeva che «avesse per logica conseguenza profondi sovvertimenti negli ordini dello Stato e (…) stimò dovere suo raccogliere maggioranze comunque composte». L’Italia unita era troppo giovane e fragile per essere governata «all’inglese» con piccole maggioranze che si sarebbero alternate precariamente alla guida del Paese.
Vi furono altri trasformismi, caro Valsecchi. Vi fu quello della classe politica democratica che confluì nel fascismo dopo l’avvento di Mussolini al potere. Vi fu quello di molti fascisti che andarono a rafforzare i ranghi della Democrazia cristiana dopo il crollo del regime. Vi fu quello degli intellettuali fascisti che risposero ai richiami della maga Circe Togliatti e divennero comunisti. Ma ciascuno di questi trasformisti meriterebbe un discorso a parte.