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 2014  settembre 20 Sabato calendario

CANTI ANTICHI E GONNE DI TARTAN I SIMBOLI (INVENTATI) DEGLI SCOZZESI


La Scozia è da sempre idealmente unita all’Inghilterra. E allo stesso tempo ne sarà sempre dipendente. Più gli scozzesi si sforzeranno di esibire i simboli della propria identità e tradizione, più questo stato di dipendenza sarà acuito. Perché quei simboli, quella tradizione, i cardini di quell’identità sono falsi. Falsi abbastanza recenti, vecchi non più di duecento anni. Fabbricati per gareggiare con gli inglesi.
Il caso è ben raccontato da Hugh Trevor-Roper ne «L’invenzione della tradizione» (Einaudi, a cura di Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger). Storicamente le Highlands scozzesi, fino al ’700, erano state considerate propaggine dell’Irlanda del Nord. Gli antichi Scoti erano coloni dell’Ulster e come irlandesi gli highlanders furono visti per oltre un millennio. «Irlandese» veniva definita la loro lingua gaelica e celti irlandesi erano fieri di essere i Macdonald, grandi signori della Scozia e dell’Irlanda settentrionale. Dall’Ir
landa venivano i suonatori di arpa. E quanto alla moda, da perfetti gaelici, portavano tutti i pantaloni. Il mito e il folklore vennero dopo.
Per il primo, si iniziò secondo copione: per fabbricare una nazione, serve anzitutto un passato glorioso. Bastarono cinque anni: tra il 1760 e il 1765 l’oscuro maestro elementare di simpatie nazionaliste James Macpherson diede alle stampe i Canti di Ossian, poema gaelico antichissimo, testimonianza della civiltà raffinata della Scozia antica, che nulla aveva da invidiare alla Grecia. Si trattava di un falso, ma contagiò tutta Europa. Da Goethe a Foscolo a Madame de Staël: il mondo si convinse che la Scozia in passato aveva dominato il vecchio continente, quando gli inglesi non erano che barbari. Gli highlanders scoprirono l’orgoglio e Macpherson fondò la Highland society per la difesa di tradizioni etniche del tutto immaginarie.
Passo secondo: serviva il folklore, usi e soprattutto costumi. Storicamente non esistono testimonianze del kilt prima degli anni Trenta del Settecento, quando il quacchero (inglese!) Thomas Rawlinson, proprietario di una catena di fornaci, inventò il «philibeg» o «piccolo kilt», per rendere più conveniente l’abbigliamento dei propri operai che allora portavano una tunica. Caso volle che gli inglesi, una decina di anni dopo, decidessero di proibire quel (nuovo) philibeg operaio, rendendolo simbolo d’indipendenza perfetto. Nel 1805 sir Walter Scott affermò in un articolo, senza nessuna prova storica, che gli antichi scozzesi erano soliti indossare «una sottana tartan», ovvero una gonnella a scacchi al posto dei pantaloni celtici. Pochi anni dopo, Scott divenne presidente della Celtic Society di Edimburgo, felice di poter promuovere «l’entusiasmo del gaelico quando si libera dell’asservimento delle brache».
Quando nel 1822 re Giorgio IV d’Inghilterra annunciò un’imminente visita a Edimburgo, sir Walter Scott, a capo di tutti i cultori di una tradizione inventata, decise di trasformare la parata nella grande manifestazione del nuovo, nuovissimo «antico folklore scozzese». «Venite, vi prego — scriveva sir Scott a un notabile delle Highlands — e portate con voi una decina di uomini del clan, fate in modo di apparire come un capo delle isole!». Raccomandava d’indossare il kilt: la stoffa sarebbe stata fornita dalla William Wilson e Figlio, la stessa ditta che aveva convinto la Celtic Society a confermare una storia mai circolata prima, per cui ogni clan aveva un preciso disegno tartan di identificazione. L’ultima raccomandazione: «Degli highlanders, ecco chi vogliamo vedere».
La parata fu un successo: kilt, canti antichi, cornamuse. Fu l’inizio, l’invenzione di una tradizione che oggi vive e pesa politicamente.