Antonio Gnoli, la Repubblica 20/9/2014, 20 settembre 2014
OLTRAGGIATI E CURATI L’USO POLITICO DEI CORPI
Non so se il nuovo lavoro di Giorgio Agamben – L’uso dei corpi in uscita per Neri Pozza – sia il testo conclusivo di una ricerca ventennale nella quale l’autore ha posto al centro della riflessione la figura dell’ Homo sacer e le sue declinazioni (lo stato d’eccezione, Auschwitz, lo scavo nella teologia paolina e in quella francescana, l’archè e il giuramento). Sembrerebbe di sì. Dopotutto, vi è un punto di approdo rispetto al quale la parola fine ha un senso.
E quel senso lo si percepisce nella serietà con cui Agamben ha affrontato il dispositivo della nuda vita. Ma può davvero una ricerca considerarsi conclusa? Può fornirci tutte le risposte che in qualche modo ci saremmo aspettati da essa? O non è forse vero che una ricerca conserva un residuo, un resto, qualcosa che si può solo interrompere, abbandonare, lasciare ad altri come eredità o compito supplementare? Nel chiudere questo libro importante si ha la netta sensazione che nel momento in cui Agamben metta un punto definitivo, lì qualcos’altro dovrà generarsi.
Intanto cos’è l’”uso dei corpi”? L’espressione mostra una certa familiarità con ciò che si è letto in passato. Aristotele – e in generale il mondo greco – paragona lo schiavo a uno strumento animato il cui uso lo rende simile alle suppellettili della casa. Lo schiavo non smette di essere uomo ma l’uso che viene fatto del suo corpo lo rende simile a uno strumento animato.
Il mondo moderno modellerà le proprie esigenze sulla figura dell’uomo libero. Sarà Marx a svelarci che il paradigma antropologico ereditato dal mondo classico, e posto in vario modo al centro dal liberalismo, non fosse poi così privo di inquietanti somiglianze con la schiavitù. Come avrebbe dimostrato l’analisi del lavoratore ai tempi del capitalismo.
Se questo è il possibile sfondo dal quale affiora l’idea di un corpo, in qualche modo oltraggiato (si pensi, tanto per indicare uno dei punti estremi del discorso, al modo in cui Sade teorizza come un fatto naturale la differenza corporea tra padroni e schiavi) resta da considerare il risvolto positivo che il corpo prospetta ove insieme all’uso se ne vede anche la cura.
Ma qual è la relazione tra “uso” e “cura”? Per intenderla – anche nelle sue aporie – Agamben si sofferma sulla riflessione di Michel Foucault. Che in un corso dedicato all’”ermeneutica del soggetto” richiamò l’attenzione su come Socrate distingue “colui che usa” da “ciò che usa”. È evidente la differenza tra me che uso un coltello per tagliare il pane e lo strumento in questione. Socrate ne conclude che anche l’uomo che usa il proprio corpo (prendendosene cura) sta usando qualcosa che è suo e non è suo. Non è suo perché il corpo non appartiene al corpo (una tesi grazie alla quale Aristotele poté giustificare la schiavitù). È suo perché il corpo non potrebbe essere usato senza la presenza di un’anima. Di un sé. Ciò che Platone, attraverso Socrate, scopre, ci dice Foucault, è la prima esperienza del soggetto. Senza la distinzione e la relazione tra uso e cura, difficilmente sarebbe emersa la figura della soggettività. Che il cristianesimo immobilizzerà dentro pretese universalistiche.
La filosofia moderna ha spesso rivestito la figura del soggetto di astratte considerazioni: sia immaginando che ci possa essere un “soggetto sovrano” separato dal mondo che pensa, desidera, anticipa e in seconda battuta riversa tutto questo all’esterno (posizione idealista); sia che vi è un mondo dal quale il “soggetto” si lascia condizionare in forza delle percezioni che prova (posizione materialista). Foucault – ma già Nietzsche e ancor prima Spinoza – respinge la logica del “prima e del dopo” (il dispositivo aristotelico della potenza e dell’atto) e dice che “soggetto” è colui che fa un certo numero di cose: si occupa di sé, entra in rapporto con il mondo e con altri soggetti. Non c’è il soggetto e poi l’oggetto distinto. C’è la relazione tra essi.
È stato Heidegger a spingere con forza il tema della relazione e del soggetto in quella espressione, resa familiare dalle molteplici interpretazioni, per cui l’esserci è da sempre gettato nel mondo. Come l’esserci (diciamo in senso lato l’uomo) si muova dentro questo mondo e si orienti, non è una questione scontata. Quello che l’esserci fa, lo realizza,
Antonio Gnoli, la Repubblica 20/9/2014