Johannes Dieterich, la Repubblica 20/9/2014, 20 settembre 2014
CON I MONATTI DI EBOLA LA TRISTE CACCIA AI CADAVERI DELL’ULTIMA PESTE
MONROVIA.
Domenica mattina a Monrovia: nella capitale liberiana l’inferno di Dante diventa ancora una volta realtà. Mentre gli altri vanno in chiesa o, in maglietta, al campo di calcio, Friday Kiyees va a recuperare cadaveri. Ogni gesto del trentasettenne segue uno schema collaudato. In un batter d’occhio carica sul suo fuoristrada varie scatole di indumenti protettivi, tre erogatori di quelli che si usano in agricoltura, e una scatola di sacchi per salme. La sua è una squadra di nove uomini, tre automezzi — tra cui un pick-up col cassone scoperto — e un’auto della polizia che, con luce blu e sirena, evita al convoglio soste inutili. Piove e la gente guarda sfrecciare il convoglio con gli occhi sbarrati. La squadra di Kiyees viene inviata dalla centrale operativa in una zona periferica della città. Fanno fatica a individuare la meta: madre e figlia corrono fuori da una casupola piangendo, le braccia al cielo. «Non lo rivedrò mai più», singhiozza la sorella del morto, un quindicenne. Gli uomini della squadra indossano con gesti esperti le tute protettive bianche, calzari, occhiali, mascherina e cappuccio — mentre decine di persone del vicinato li osservano immobili, a debita distanza. Prima di tutto si procede alla disinfezione della abitazione, anche se non si sa se il ragazzo sia stato realmente vittima del virus. In Liberia con l’Ebola in circolazione ogni morte è sospetta. Quando infine quattro portantini escono dalla capanna reggendo il sacco contenente la salma, la madre sviene.
Questa scena si ripeterà altre tredici volte nel corso della giornata. Kiyees non sa dire quanti cadaveri ha già seppellito. Dall’inizio dell’epidemia, più di sei mesi fa, è stato in servizio sei giorni la settimana. La croce rossa di Monrovia dispone di sei squadre per il recupero dei cadaveri e presto se ne aggiungeranno altre, perché Kiyees e i suoi colleghi non riescono più a far fronte all’emergenza. Già ora nella sola Monrovia muoiono di Ebola circa 50 persone al giorno. Presto, a detta degli esperti statunitensi, potrebbero diventare cento, o addirittura mille. La prossima meta di Kiyees è un quartiere particolarmente popoloso della città. Il fuoristrada passa a fatica nel dedalo dei vicoli. C’è un bambino di due mesi da prelevare, sono tre giorni che giace, morto, in una stanza. Prima di lui sono morti la madre, il padre, la zia e la nonna — un chiaro segno di contagio per Kiyees e i suoi. In casa ci sono ancora altre sei persone. «Anche tu hai gli occhi rossi», dice uno degli uomini della squadra ad una bella donna. Gli occhi le si riempiono immediatamente di lacrime. Kiyees vieta ai componenti della famiglia di uscire e di ricevere visite. In caso di sintomi come mal di gola o nausea li invita a telefonare immediatamente alla centrale. Non servirà comunque, perché sia il pronto soccorso che i reparti di isolamento sono stracolmi.
Alla tappa successiva un uomo sostiene di aver chiamato per giorni la centrale. La sorella, 44 anni, lamentava i sintomi già da una settimana e, visto che nessuno rispondeva mai alle telefonate, si era messa in cammino per l’ospedale, ma i vicini di casa l’hanno picchiata e costretta a tornare indietro. Così si è rintanata in una casupola di lamiera ondulata di sei metri quadri e lì, due giorni dopo, è morta. Vicino al mercato Douala una struttura sanitaria è stata convertita in astanteria per i malati di Ebola. Una madre tiene in braccio il figlio di nove anni che ha già lo sguardo perso nel vuoto. «Perché mi portano via il mio bambino? », urla la donna e, dopo aver adagiato il figlio su una coperta, gli si lascia cadere a fianco. Il piccolo respira ancora debolmente. Poi resta immobile. Gli uomini di Kiyees avvolgono Jinky, così si chiamava il bambino, nella coperta e spruzzano l’asfalto con la soluzione disinfettante. Poi adagiano il corpicino sul pianale del pick-up accanto agli altri cadaveri. Studente di biologia, 27 anni, Daniel Morris, già da due mesi raccoglie cadaveri, l’università intanto è chiusa. Quando la sera torna a casa si chiude in camera. Né i suoi genitori né i suoi amici vogliono avere contatti con lui. Alcuni dei suoi colleghi sono stati cacciati dal padrone di casa o messi alla porta dai familiari. I portatori sono i lebbrosi dell’era dell’Ebola, anche se con gli indumenti protettivi il loro è un lavoro tra i più sicuri. Nessuno è stato ancora contagiato, dice il caposquadra, Kiyees.
Ora li aspettano i cadaveri di un altro neonato, di un giovane rifiutato da uno dei reparti di isolamento sovraffollati, di un uomo di 55 anni e di una donna di 32, prima di dirigersi all’ultima tappa della giornata, il crematorio, parecchi chilometri fuori città. Cremare i defunti in Africa è considerato una barbarie, ma la presidentessa della Liberia, Ellen Johnson-Sirleaf, ha emanato un decreto che impone di non seppellire i morti di Ebola. E poiché, fino a prova contraria, ogni morte è considerata sospetta, la proibizione vale per qualsiasi deceduto, anche perché i kit per effettuare il test non sono sufficienti per tutti. Sotto una copertura di lamiera a protezione dalla pioggia gli operai hanno impilato su una piattaforma di calcestruzzo vari strati di tavole di legno su cui giacciono già 36 sacchi di plastica, che con i 13 portati dalla squadra di Kiyee diventano 49. In seguito verranno cosparsi di benzina e di grandi quantità di margarina: la pira brucerà per 15 ore. Msf ha mandato in Liberia due modernissimi forni crematori, ancora da sballare. Kiyees dice che verranno messi in funzione nei prossimi giorni. Così quantomeno le tristi conseguenze di questo scandalo umanitario potranno essere cancellate senza difficoltà.
(Copyright Tages Anzeiger la Repubblica Traduzione di Emilia Benghi)
Johannes Dieterich, la Repubblica 20/9/2014