Filippo Ceccarelli, la Repubblica 20/9/2014, 20 settembre 2014
LA COLONNA DI MARCO AURELIO E UNA TELE-VENDITA AGGRESSIVA IL VIDEO DEL PREMIER SUPERA LA LEZIONE BERLUSCONIANA
ROMA.
Dalla tele-vendita alla adlocutio, che sarebbe il discorso dell’imperatore alle truppe, la distanza è apparentemente abissale, e se ne trova conferma nella colonna di Marco Aurelio che giganteggia alle spalle del presidente Renzi.
Non si penserà mica che sia finita lì per un caso. Nel lungo bassorilievo che si attorciglia nel marmo è descritto l’imperatore filosofo che debella Germani e Sarmati, in appena due minuti e mezzo il tele-premier della post- politica mette in rete un marketing aggressivo contro i sindacati «ideologici».
Il video di Palazzo Chigi è un piccolo gioiello di propaganda o, se si preferisce, di comunicazione all’altezza dei tempi. Quindi a suo modo efficace, a cominciare dalla tempistica, che oscura i malanni economici dell’Italia, le ripetute sconfitte in Parlamento e gli impicci familiari.
Lo strumento scelto non è berlusconiano, è di più: indica l’evoluzione della specie relegando definitivamente i filmati del Cavaliere — mesti, fermi, noiosi, quella scrivania vasta e pomposa, quel damasco polveroso, quel lampadario di inutile lusso — nell’archeologia visiva di un tempo remoto.
Renzi parte a bocca aperta, poi fa imitazione della Camusso attribuendole un tono ridicolmente stentoreo, quindi torna se stesso, socchiude gli occhi, aggrotta la fronte, alza il sopracciglio e a tratti anche la voce. «Con le parole — ha detto una volta Berlusconi — il ragazzo è bravo».
Per quanto riguarda i contenuti la faccenda è più complicata. Ma la tecnica dello storytelling, o narrazione di servizio, ha proprio lo scopo di superare ogni possibile divaricazione. Così contro la prevedibile retorica sindacale che evoca la Thatcher, contro gli scontati racconti collettivi del secolo scorso, cosa ti inventa il giovane premier formatosi nell’intrattenimento?
Ecco, convoca una certa «Marta», non solo giovane e precaria, ma anche e perfino incinta, e poi «Giuseppe», cinquantenne senza tutele, e infine un anonimo artigiano vessato dalle banche. Sono persone che non esistono, ma in qualche modo sì, perché lui, battezzandole, le fa vedere e le rende vive, in ciò facendone dei testimonial funzionali alla sua, di retorica.
Tutto questo sembra che il premier dica e faccia con maggiore intensità dopo essersi tolto la giacca. La camicia bianca, ormai divenuta una sorta di uniforme e addirittura esportata ai leader della sinistra europea, lo rende qualcosa di più che un politico diverso da tutti gli altri: un brand, una marca e insieme un marchio di successo. Di lotta e di governo, mai come in questo video-messaggio.
In una approfondita disamina al recente festival della Mente di Sarzana, Marco Belpoliti, col sussidio di esempi storici e di parecchie immagini, ha concluso che i più accorti leader di questo tempo privo di ideologie tendono a operare nella società come la Apple o la Coca Cola. «L’hanno imparato a fare dagli attori hollywoodiani» aggiunge. «Le sette camicie di Matteo» — questo il titolo — dicono che l’indumento dello stilista Scervino è parte essenziale dello stile, della strategia, «notorietà e desiderabilità» incluse.
Ma recitava Renzi nel suo video di guerra alla Cgil? Certo che sì. Tutti i politici più o meno lo fanno. Lui meglio — anche se ieri le mani, che pure sono parte fondamentale della sua recitazione, si vedevano e non si vedevano. Anche in questo superando la lezione berlusconiana, quanto a tecnica attoriale il premier comunica sincerità «a prescindere dai fatti». In altre parole è la premessa della persuasione. I cococò e i cocoprò, menzionati con qualche lampo di troppo, avranno modo di giudicare.
Il momento migliore quando sembrava che l’ardore dell’oratoria presidenziale si fosse placato e invece, a sorpresa, lui è ripartito in quarta accusando gli odiosi «ideologici » con la formula, che è da sempre la sua grande forza: «Dove eravate in questi anni »? Qui il messaggio è ritornato implicitamente alle origini del renzismo: rottura generazionale, giovinezza, rottamazione, illimitata fiducia in se stesso. Quindi slogan pubblicitario, dall’inclinazione vagamente pannelliana: difendiamo «i diritti di chi non ha diritti».
Io, noi, siamo dunque i buoni. Loro, che si opporranno a questa mirabile riforma, sono i cattivi. La vedremo. La politica post-ideologica, dopo tutto, non coltiva sfumature e pencola e slitta sempre un po’ sul manicheismo e un ingenuo semplicismo. Ne fa fede una genericità che nell’oratoria del premier in camicia risuona spesso come una sospetta costante. Il nuovo mercato del lavoro sarà «giusto»; le nuove regole pure «giuste» — ci mancherebbe — e «non complicate»; il suo sforzo sarà compiuto «in modo concreto e serio». Fine.
Poi, appunto, i video finiscono e di solito tutto si rivela terribilmente difficile. La realtà si prende i suoi tempi e le sue rivincite. Nel frattempo, fuori dalla finestra di palazzo Chigi, il lungo bassorilievo della Colonna e dei trionfi di Marco Aurelio ancora una volta confermavano che in genere la storia procede come vuole lei.
Filippo Ceccarelli, la Repubblica 20/9/2014