Vittorio Sabadin, La Stampa 20/9/2014, 20 settembre 2014
“CARI SCOZZESI, PENSATECI BENE” ED ELISABETTA SALVÒ IL SUO REGNO
Ieri mattina, al castello di Balmoral, la regina Elisabetta è stata svegliata un po’ prima del solito dalla sua assistente privata. Non aveva dormito molto bene. Nel suo lungo regno ne ha viste di tutti i colori, ma dai tempi della Battaglia d’Inghilterra l’integrità del Regno Unito non era più stata così minacciata, né il futuro della monarchia britannica era stato messo in discussione. Ieri Elisabetta avrebbe potuto svegliarsi e scoprire che un terzo del territorio del suo reame se ne era andato, e che mille problemi stavano per nascere. Non sarebbe più stata ricordata come la longeva sovrana che ha garantito pace, libertà e prosperità al suo regno, ma come la regina che ha perso la Scozia.
La cameriera avrà come sempre scostato le tende delle finestre che guardano la piccola valle al fondo della quale scorre il fiume Dee, e forse avrà detto una di quelle frasi storiche che non conosceremo mai, perché non saranno rivelate. Qualcosa come: «Signora, il Regno è ancora unito», oppure: «Maestà, hanno detto no». Elisabetta si sarà alzata di ottimo umore. A colazione avrà dato qualche boccone in più ai suoi corgi e scorso su l’iPad che William e Harry le hanno insegnato ad usare. Forse si è fatta portare la vecchia Land Rover e ha fatto un giro con Filippo nella brughiera della proprietà, velata di nebbia e di pioggia. Avrà pensato di avere fatto ancora una volta un ottimo lavoro, per sé e per i suoi sudditi, dando come sempre l’impressione di non avere fatto proprio niente.
I giornali e gli analisti troveranno sicuramente un vincitore della campagna per il no nel referendum in Scozia. Si dirà che il merito è di David Cameron, di Alistair Darling, persino di Gordon Brown, che nei comizi citava la moglie di Macbeth: attenzione, perché una volta fatto, quello che è fatto è fatto.
Ma niente di ciò che i leader della campagna per il No hanno detto in due anni di battaglie ha avuto tanto peso sull’esito del referendum come le poche parole pronunciate da Elisabetta domenica scorsa all’uscita della Crathie Kirk, la piccola chiesa di pietra grigia già frequentata dalla regina Vittoria. Da giorni tutti i partiti premevano su Buckingham Palace perché la sovrana dicesse qualcosa a favore del No, ma Elisabetta non poteva farlo. Come monarca costituzionale, sa benissimo che il suo potere esiste solo finché non lo usa: se chiedesse ai sudditi di votare in un modo e fosse poi smentita dal risultato, la sua autorevolezza sarebbe finita.
Ma qualcosa bisognava fare. Se ne è discusso per giorni, nel salotto di Balmoral pieno di foto di famiglia, di giornali e di riviste e di pupazzi di animali, con il consunto tappeto di tartan e la stufa da poche sterline nel caminetto. E alla fine si è trovata la soluzione. Tutto doveva sembrare casuale ed essere organizzato come una operazione militare, e così è stato. Poco prima che la Regina uscisse domenica scorsa dalla chiesa, un poliziotto ha avvisato i giornalisti che potevano avvicinarsi, cosa mai avvenuta prima. Sorridente e serena, con i soliti tre fili di perle che indossa da quando era ragazza, Elisabetta si è rivolta a un gruppo di persone che l’aspettavano, un gruppo formato non a caso per metà da scozzesi residenti e per metà da turisti inglesi, dicendo l’unica cosa che poteva dire: «So che avete un importante voto giovedì prossimo. Spero che tutti pensino con molta attenzione al referendum in questa settimana». Non ha detto né sì né no: ha detto pensateci bene, perché, dopo, quello che è fatto è fatto.
Forse la Regina non ha convinto i sedicenni che votavano per la prima volta e che giustamente, da millenni, vogliono che le cose cambino. Ma deve avere avuto una influenza considerevole sulle donne, sempre attente alle conseguenze delle iniziative prese da maschi testosteronici sul bilancio familiare e sul futuro dei figli. E ha probabilmente anche toccato il cuore delle persone più anziane, quelle che sono da tempo stufe della retorica di Braveheart e ricordano invece i racconti dei loro padri, che hanno combattuto a fianco degli inglesi, innalzando insieme la «Union Jack» per difendere la libertà di tutti. Più che di William Wallace, sono orgogliosi di William Millin, che quando aveva 21 anni suonò per ore la cornamusa a Sward Beach, sotto il fuoco tedesco, mentre le truppe britanniche sbarcavano in Normandia.
Si dice che il Regno Unito ora non sarà comunque più come prima, e può darsi che sia vero. Ma ha dato prova ancora una volta di essere una grande democrazia, nella quale si consente ai cittadini di esprimersi anche su questioni vitali, che possono cambiare il destino del paese ridisegnandone i confini. È questo che rende i britannici unici al mondo: la straordinaria coesione di cui hanno dato sempre prova deriva dalla sicurezza che mai nessuno impedirà loro di decidere il proprio futuro, quando fosse necessario farlo. E anche dal fatto che, a tenere unito il regno, c’è un’impagabile e impeccabile regina che parla poco, ma che proprio per questo, quando parla, viene sempre ascoltata.
Vittorio Sabadin, La Stampa 20/9/2014