Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  settembre 20 Sabato calendario

ALLA CORTE PUÒ RESTARE IMPUNITO PER 9 ANNI

Donato Bruno non ha fatto una piega quando gli hanno chiesto un commento alla notizia pubblicata ieri in esclusiva sul Fatto: “Sono sereno e non rinuncerei alla candidatura anche se fossi indagato”. Mentre Matteo Renzi attivava un canale con la Procura di Isernia, sperando in una smentita che non è arrivata, Debora Serracchiani alle 9 e 30 di mattina, alla trasmissione Agorà confermava l’appoggio a Violante aggiungendo a beneficio di Bruno: “Un avviso di garanzia non è una sentenza”.
A quel punto Bruno giocava le sue carte abilmente facendo leva sul fatto che l’iscrizione sul registro degli indagati non gli è stata ancora notificata. Alle 14 e 38 le agenzie di stampa pubblicavano una nota nella quale il senatore chiedeva al Fatto una rettifica senza però rettificare alcunché. La nota va letta tra le righe. Bruno non scrive di non essere indagato ma solo: “Non mi è stato mai notificato alcun atto giudiziario dal quale risulti una mia pretesa posizione di ‘inquisito’ e sono stato sentito nella diversa veste di ‘persona informata dei fatti’”. Due affermazioni che non contrastano con la notizia data dal Fatto e mai smentita dalla Procura di Isernia.
Il senatore è indagato per concorso nel reato di interesse privato del curatore negli atti del fallimento, previsto dall’articolo 228 della legge fallimentare anche se, in precedenza, era stato sentito in altra veste e anche se non ha ricevuto ancora un avviso. Nessuno obbliga la Procura a notificare l’avviso se non deve fare atti come un’acquisizione di documenti (vedi il caso Eni-Nigeria) o una proroga indagini dopo i sei mesi (vedi il caso del padre di Renzi) e fino a quel momento la notizia può restare custodita negli archivi del pubblico ministero.
Come l’avvocato Bruno sa bene, però, c’è un modo per sgombrare il campo dagli equivoci. Basta che lui stesso, o un suo legale, oggi si presenti alla cancelleria della Procura di Isernia, salga le scale fino al secondo piano e infili la porta della stanza 8 per presentare un’istanza ex articolo 335 c.p.p.. A quel punto il responsabile sarà tenuto a rilasciare un documento che attesti l’assenza di iscrizioni a carico di Bruno. I pm devono comunicare le iscrizioni “alla persona alla quale il reato è attribuito e ai difensori, ove ne facciano richiesta”. Una regola che soffre solo un’eccezione se ci sono “specifiche esigenze attinenti all’attività di indagine”. In quel caso il pm potrebbe mantenere il segreto per un periodo non superiore a tre mesi. Questo però non sembra il caso di Bruno.
Il candidato alla Consulta può quindi conoscere prima della prossima votazione del Parlamento, programmata per martedì, il suo status. Di conseguenza il Pd non ha scuse per votare ad occhi chiusi. Se vuole un inquisito alla Consulta può eleggerlo ma con piena scienza e coscienza. Renzi non deve telefonare in Procura per sapere se Bruno è indagato. Deve solo chiedere al candidato di procurarsi il certificato per sventolarlo in aula prima del voto.
Ciò premesso, sarebbe ben strano che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non facesse sentire la sua moral suasion in tal senso. Ai giuristi del Quirinale non sfuggirà, infatti, la situazione imbarazzante che si determinerebbe con l’ascesa alla Consulta di un indagato. Donato Bruno potrebbe ritrovarsi a decidere (ovviamente è un’ipotesi di scuola) sul suo caso e magari potrebbe scrivere una sentenza che lo aiuti a farla franca, sempre parlando per ipotesi ove mai l’inchiesta e un eventuale processo proseguissero in senso a lui sfavorevole. E già perché la Corte Costituzionale, nel 1999 con l’ordinanza numero 681 si è occupata proprio dell’articolo 228 della legge fallimentare. Un imputato voleva che il reato contestato a Bruno fosse abolito perché riteneva irragionevole che rimanesse dopo l’abrogazione di un reato simile: l’interesse privato in atti d’ufficio. In quel caso la Consulta salvò il reato 228 anche se ammise che il legislatore avrebbe dovuto risolvere qualche problema di coordinamento con la nuova normativa.
A prescindere da questo potenziale conflitto di interesse la nomina di un indagato alla Corte provocherebbe una serie di effetti indesiderati.
I giudici costituzionali godono della stessa immunità dei parlamentari ma con due differenze non da poco: il mandato del possibile giudice costituzionale Bruno scadrà nel 2023 mentre l’immunità del senatore Bruno scadrà al massimo nel 2018. Inoltre l’autorizzazione a intercettazioni o arresti (sempre per mera ipotesi) dovrà essere concessa dagli stessi giudici della Corte. Si verificherebbe una situazione inedita con 14 giudici costituzionali costretti a decidere la sorte del quindicesimo.
Le conseguenze in caso di condanna sarebbero ancora più grottesche. Il reato contestato a Isernia non prevede solo la reclusione da due a sei anni ma anche l’interdizione dai pubblici uffici. Per Bruno deve essere garantita la presunzione di innocenza. Certamente sarà in grado di dimostrare che non c’è nulla di male a ricevere 2,5 milioni di euro per la propria attività legale anche se commissionata da una terna di commissari nominata da un ministero guidato dal compagno di partito Claudio Scajola di cui fa parte anche un avvocato che lavora proprio nello studio di Bruno. Se però per assurdo i giudici si convincessero del contrario, la situazione si farebbe imbarazzante con un giudice costituzionale costretto a lasciare la carica da un giudice ordinario. Sempre che prima il giudice costituzionale non abroghi con i suoi colleghi il reato di interesse privato del curatore spuntando le armi al medesimo giudice penale. Scenari assurdi che però devono essere esplorati mentalmente prima di fare una nomina di rango costituzionale di durata novennale.
Marco Lillo, il Fatto Quotidiano 20/9/2014