Pietro Greco, pagina99 13/9/2014, 13 settembre 2014
SE L’ERUZIONE DEL VESUVIO DIVENTA UN’OPPORTUNIT
Il Vesuvio, un grande vulcano e una grande questione nazionale. A settant’anni dall’ultima eruzione, a sette mesi dalla ridefinizione della cosidetta “zona rossa” e a sette settimane dall’apertura dei termini del condono edilizio in Campania che sanerà all’italiana la condizione di illegalità di 3.000 case costruite abusivamente nel solo comune di Terzigno, all’interno del Parco nazionale, si ritorna a parlare del Vesuvio, il vulcano più noto, pericoloso, studiato e monitorato al mondo.
Bene inteso e a scanso di equivoci: l’Osservatorio vesuviano e l’Istituto italiano di geofisica e vulcanologia (Ingv) diretto da Stefano Gresta sostengono e dimostrano con assoluta trasparenza che non c’è alcun segno premonitore di un risveglio del gigante. Il Vesuvio se la dorme. E speriamo che il suo sonno duri ancora a lungo.
E, allora, perché questo ritorno di interesse per il vulcano che segnala skyline e il destino di Napoli? Beh, i motivi sono due. La causa prima e più immediata riguarda i fatti che abbiamo ricordato. Poco prima che scadessero i settant’anni dall’ultima eruzione del Vesuvio, iniziata il 18 e terminata il 29 marzo 1944 al cospetto degli Alleati che avevano appena liberato la città di Napoli, la Protezione civile ha ampliato la cosiddetta “zona rossa”, ovvero l’area considerata più a rischio e che, in caso di segnali premonitori, dovrebbe essere evacuata nel giro di 72 ore. Fino a febbraio comprendeva 18 comuni. Ora la “zona rossa” nel suo complesso ne abbraccia 25, compreso quello di Napoli (o meglio, di alcune municipalità del Comune partenopeo) e interessa 700.000 cittadini.
La seconda causa è che sta crescendo anche fuori dalla ristretta cerchia degli esperti la consapevolezza che, per quanto oggi il Vesuvio sia in una fase quiescente e per quanto nessuno allo stato possa dire quando e come il vulcano si risveglierà, un fatto è certo: prima o poi – tra qualche secolo, tra qualche decennio o tra qualche anno – il gigante interromperà il suo sonno. E allora saranno guai: poiché quella circumvesuviana è l’area più densamente popolata al mondo posta ai piedi di un vulcano. Evacuare in poche ore almeno 700.000 persone, che dovranno trovare collocazione altrove, la maggior parte fuori regione, non è uno scherzo.
Non mancano le polemiche rispetto a questo gigantesco piano di evacuazione. I nodi della discussione sono di tre tipi. C’è il nodo scientifico: la nuova “zonarossa”, divisa a sua volta in “zona 1”e “zona 2”, è stata definita sulla base di scenari che prevedono al massimo un’eruzione cosiddetta subpliniana, del tipo di quelle che si sono verificate negli ultimi duemila anni, dopo l’eruzione del 79 d.C. che uccise Plinio il Vecchio e distrasse Pompei ed Ercolano. Questi scenari coprono la quasi totalità degli eventi possibili. Ma non tutti. Non prevedono, appunto, lo scenario peggiore. Un’esplosione che potrebbe mettere a rischio un’area abitata da tre milioni di persone, compresa la gran parte della città di Napoli. La domanda è: è giusto (è prudente) escludere lo scenario peggiore?
Un secondo nodo da sciogliere è di tipo organizzativo. Siamo pronti ad attuare il nuovo piano della Protezione civile? La risposta, per ora, è no. Occorre che tutte le istituzioni pubbliche mettano insieme una macchina per l’evacuazione e la collaudino. Occorre una sistematica formazione dei cittadini residenti nelle zone a rischio, affinché la fuga dalla catastrofe non si trasformi essa stessa in una catastrofe.
II terzo nodo è di natura politica. Com’è possibile che mentre la Protezione civile si muove estendendo l’area a rischio, la Regione e i Comuni si muovano in direzione opposta e puntino a sanare gli edifici costruiti illegalmente nelle zone più pericolose, addirittura dentro il Parco nazionale del Vesuvio? C’è una schizofrenia di comportamenti che va, essa sì, sanata.
Tutto questo acceso dibattito sull’“emergenza Vesuvio” è sacrosanto e utile. Tuttavia ha un limite. È, appunto, un dibattito sull’emergenza. Che riguarda i giorni e le ore che precedono l’eruzione prossima ventura. Momenti cruciali, certo. Ma che non esauriscono il “problema Vesuvio”. Che potrebbe rivelarsi, anche escludendo lo scenario peggiore, un problema di lungo periodo e di dimensioni molto più ampie di quella che interessa i 25 comuni e dei 700.000 candidati all’evacuazione della “zona rossa”.
Intanto, nessuno sa quanto durerà l’attività del gigante una volta risvegliato. Poche ore, pochi giorni o alcuni mesi. Un’eruzione, in ogni caso, causerà dei danni materiali. Che impediranno alla popolazione evacuata di far ritorno alle proprie case e, spesso, al proprio lavoro per un tempo indefinito. Come vivranno, come faranno almeno 700.000 persone per mesi se non per anni lontano dalla propria residenza?
Inoltre il caos generato dall’esplosione del vulcano investirà l’intera area metropolitana di Napoli, la più grande d’Italia insieme a Roma e Milano. Che ne sarà della città, della sua vita economica, della sua vita sociale, durante e soprattutto dopo l’eruzione?
Nessuno ha una risposta certa a queste domande. Ma ancora una volta c’è una certezza: i problemi generati dall’eruzione del Vesuvio andranno ben oltre l’emergenza e assumeranno una dimensione almeno nazionale. Perché investiranno la politica, la società, l’economia dell’intero paese e, forse, dell’intera Unione europea.
Si può fare qualcosa, oltre la migliore gestione dell’emergenza? Si può prevenire, invece di limitarsi a gestire, il rischio vulcanico? Si può trasformare il rischio in opportunità? L’“emergenza Vesuvio” in un “progetto Vesuvio”?
Molti sostengono che non solo si può, ma si deve agire nel lungo periodo per prevenire, almeno in parte, gli effetti dell’eruzione del Vesuvio. È l’unico modo è decongestionare l’area. Diminuire la densità abitativa. Indurre una buona parte (la gran parte) degli attuali abitanti a lasciare in maniera preventiva e definitiva la “zona rossa” (e possibilmente altre aree considerate a minor rischio fisico) per mettere su casa e trovare lavoro altrove. Ci aveva provato qualche anno fa Antonio Bassolino, finanziando con alcune migliaia di euro a famiglia la migrazione. La politica dell’allora presidente della Regione Campania andava nella giusta direzione. Ma era come cercare di svuotare il mare con un cucchiaino.
Al cospetto del gigante Vesuvio occorre una politica non meno titanica. Nazionale ed europea, appunto. Perché non si tratta di trovare solo casa ad alcune centinaia di migliaia di persone: e già questo non è impresa da poco. Si tratta di ricostruire per loro un ambiente di vita, lavoro compreso. E si tratta di ricostruirlo in maniera che sia e appaia più desiderabile. Che spinga la popolazione a rischio a decidere anzi, a desiderare di andar via dai piedi del Vesuvio.
Come fare? Nessuno ha la ricetta in tasca. Tuttavia alcune linee strategiche di questa titanica azione possono essere individuate. La Campania ha una strana asimmetria demografica. È intensamente popolata lungo la costa, in particolare lungo la costa del Golfo di Napoli, ed è relativamente poco popolata altrove, specialmente nelle zone interne. Inoltre, per paradosso, le zone più popolate sono quelle più a rischio vulcanico (non c’è solo il Vesuvio, ma anche i Campi Flegrei e Ischia), mentre il rischio vulcanico non è presente nelle aree a minore densità abitativa. Inoltre queste zone a rischio densamente popolate sono quelle che più stanno soffrendo il processo che, negli ultimi trent’anni, ha reso l’area metropolitana di Napoli un deserto industriale, sia pure con qualche residua oasi verde.
Immaginiamo, dunque, di affrontare in maniera olistica l’insieme di questi problemi. Di iniziare a prevenire il rischio Vesuvio e a invertire la direzione dell’ormai lungo percorso di declino economico di Napoli e della Campania.
Le operazioni da fare sarebbero cinque, da perseguire tutte in assoluta trasparenza e partecipazione democratica alle scelte. 1. Stimolare la nascita di una nuova e potente economia, ad alto tasso di conoscenza e a basso impatto ambientale, nelle zone più interne e comunque meno densamente popolate della Campania. Un’economia in grado di offrire posti di lavoro desiderabili. 2. Creare in queste aree un ambiente sociale desiderabile. Non solo, dunque, case. Ma tutto ciò che rende viva e creativa una società. Un ambiente che non solo non faccia rimpiangere i luoghi natii ai migranti, ma che sia attraente. 3. La creazione di questa nuova economia e di questo nuovo ambiente sociale deve risultare desiderabile anche e soprattutto per le rade popolazioni locali. Per un problema di giustizia e anche per evitare possibili conflitti. 4. Occorre costruire un sistema di trasporto che assicuri alle persone che andranno ad abitare nelle nuove zone un accesso facile e veloce al centro di Napoli e al resto d’Italia. In modo che chi va via goda e percepisca di poter godere ancora delle facilities della grande città. 5. Occorre un’azione progressiva che stimoli la partenza e disincentivi la permanenza nelle zone a rischio.
Con un’azione del genere, nel giro di venti anni, è possibile risolvere in maniera strutturale e ordinata almeno in parte il “problema Vesuvio”. Mentre già l’avvio di un’operazione del genere costituirebbe un potente “pacchetto di stimolo” per la ripresa dell’economia della Campania e dell’intero Mezzogiorno. L’operazione è tutta da discutere nei dettagli. Ma almeno se ne può iniziare a parlare. Fuori dalla logica, minimalista o catastrofista che sia, dell’emergenza.