Antonio D’Orrico, Sette 19/9/2015, 19 settembre 2015
DA PICCOLO MI CHIAMAVANO ARCHIMEDE PITAGORICO: COSTRUIVO BOMBE. SULLA MIA LAPIDE SCRIVETE GIANCARLO GIANNINI, UN ELETTRONICO MANCATO
[Intervista a Giancarlo Giannini] –
Da molto tempo desideravo intervistare Giancarlo Giannini. Perché è un grande attore, l’ultimo di una magnifica scuola (Gassman, Mastroianni, Tognazzi, ecc.). Perché ha scandito le epoche della mia e di altre generazioni. Quella beat o yé-yé: quando, ancora ragazzino, trionfava a teatro con Romeo e Giulietta di Zeffirelli e con David Copperfield in televisione. Ma, versatile come è sempre stato (una delle sue tante qualità), faceva anche i musicarelli con la Pavone (Rita la zanzara). Poi attraversò gli inquieti Anni Settanta con una serie di pellicole formidabili: Mimì metallurgico, Travolti da un insolito destino, Pasqualino Settebellezze, di Lina Wertmüller; Dramma della gelosia di Ettore Scola; L’innocente di Luchino Visconti; la struggente (e a me prediletta) La prima notte di quiete di Valerio Zurlini (maestro sottovalutato). E, nei decenni successivi, l’affermazione hollywoodiana: Hannibal di Ridley Scott, accanto ad Anthony Hopkins, e i due 007 (Casino Royale e Quantum of Solace). Chi non avesse visto niente di tutto questo può andare su internet e cercare The Gentleman’s Wager, un corto che l’attore ha girato con Jude Law, regia di Jake Scott, una storia di soli sei minuti che vale un intero film.
Adesso Giannini ha scritto una trascinante, gremitissima (di persone e fatti, sentimenti e pensieri) autobiografia, Sono ancora un bambino (ma nessuno può sgridarmi), Longanesi. L’ho incontrato nel giardino dell’hotel Aldrovandi: «Mi piace stare seduto ai tavolini del bar come faceva Hemingway. A Roma il mio ufficio è un tavolo del bar Euclide». Non è stata una intervista. È stato come vedere in carne e ossa e sentir parlare (con la voce italiana di Jack Nicholson o di Al Pacino, due dei grandi attori doppiati da Giannini) un personaggio da romanzo. Un Moses Herzog, un Charlie Citrine (gli eroi immortali di Saul Bellow), o, ancora, il Barney Panofsky di Mordecai Richler. Uno splendido monologo. Ma ora basta con i titoli di testa. Primissimo piano di Giannini, di quel suo volto, che folgorò Vincent Canby, l’incontentabile critico del New York Times, ai tempi di Pasqualino Settebellezze: «Giannini riesce nell’impresa di fare quelle facce, quelle espressioni, talmente forti e radicate, che ricordano le insenature del Grand Canyon». Primissimo piano dei suoi occhi che contengono tutte le sfumature del Golfo dei Poeti a La Spezia e del Golfo di Napoli, le città dove Giannini è cresciuto. Motore. Azione.
I grandi sono tutti gigioni. «Ho voluto molto bene a Vittorio Gassman. La prima volta lo vidi a una festa in casa Zeffirelli. Stava disteso su un divano, in posa da odalisca, e noi giovani attori non osavamo avvicinarci. Pensai: “Madonna, se devo diventare così meglio che cambio mestiere”. Poi lo conobbi sul set dei Picari in Spagna. Era timidissimo, fragile. Lo accusavano di essere un trombone. Era il contrario. Era gigione, certo, ma tutti i grandi attori lo sono. Brando era gigione. Nicholson (che per me è il più grande) è gigione. Nicholson mi fa morire, sullo schermo e nella vita. L’ho incontrato tempo fa in un aeroporto in America. “Cosa fai qui?”. E lui, che sembrava addormentato: “Non lo so. Non me lo ricordo. Dovevo vedere qualcuno”.
A cena, Gassman mi raccontava le sue avventure di vita, tutte le cazzate che aveva fatto. Mi diceva del suo periodo americano, dell’incontro con Chaplin, del matrimonio con Shelley Winters. Poi lo ritrovai sul set dello Zio indegno. E non stava più bene. Mangiavamo nella roulotte ma non era come prima. Lui prendeva riso in bianco e acqua. Stava zitto. Cercavo di scuoterlo: “Vittorio, ma che hai? Dai, sei il leone del palcoscenico. La prima volta che t’ho visto in teatro a Napoli, facevi Adelchi, spaccavi le lance in scena”. Rispondeva: “Sono malato, la depressione è una malattia, si piglia come si piglia il raffreddore. Una mattina mi alzo dal letto, apro la porta della mia camera e la richiudo subito. Non volevo più vedere e sentire nessuno. Mi facevo lasciare il piatto con il mangiare fuori dalla porta. Quella mattina mi si è spenta la luce». Un medico gli ordinò di mangiare la cioccolata fondente. Era sempre pieno di tavolette. Gliele compravo pure io. Ce le mangiavamo, nelle pause, seduti su un muretto».
I copioni si leggono. Anzi no. «Non avete idea di quanto mangiava Mastroianni e di come era caro e gentile. Mi diceva: “Fare l’attore è il più bel mestiere del mondo. Peccato che bisogna leggere i copioni”. Lo annoiavano a morte. Se li portava a letto per leggerli e, dopo poche pagine, si addormentava. Diceva che La notte, il film di Antonioni che fece epoca, lui non l’aveva capito per niente malgrado ne fosse protagonista. Teorizzava che per l’attore non è necessario capire. Eppure era bravissimo. Io, invece, i copioni li studiavo fino all’ultima riga. Vengo dalle scuole tecniche, dall’Istituto Volta di Napoli. Il mio professore di fisica era stato il compagno di banco di Enrico Fermi a Pisa. Io dovevo sapere tutto. Sono stato educato col metodo scientifico. Una volta corressi anche Luchino Visconti, mentre giravamo L’innocente, che si era sbagliato su una scena. Nessuno osava contraddirlo. Gli dissi: “Luchino, guarda che nel copione e nel libro di D’Annunzio le cose non stanno come pensi tu”. Lui controllò: “Come fai a sapere tutto?”. “Perché la notte studio il copione”.
Però, secondo Mastroianni, era inutile, anzi nocivo. E Mastroianni è stato un grande. Anche un altro grande, Marlon Brando, quando l’ho incontrato una volta, e gli ho chiesto quale era il suo segreto, mi disse: “Non leggere il copione”. Forse hanno ragione loro. Per inventare, bisogna saper tenere il personaggio distante, allontanarlo. Viene meglio. Detesto quegli attori che per fare un malato di Aids passano mesi in corsia a fianco a un poveretto moribondo. Diffido di chi si immedesima troppo. Qual è il metodo migliore? Non lo so. So solo che quando vide Film d’amore e d’anarchia Marlon Brando disse a Coppola: “Perché mi avete tenuto nascosto questo attore finora?”. E Billy Wilder, il mio idolo, mi vide al ristorante e mi abbracciò recitando le battute dei miei film».
Le cassiere dei bar di La Spezia. «Quando ero bambino a La Spezia mi chiamavano Archimede Pitagorico. C’erano le bande dei ragazzi allora, tipo Ragazzi della via Pál. Facevamo come i cani che pisciano per segnare il territorio, lo difendevamo dalle incursioni delle altre bande. Qualcuno aveva anche il fucile e sparava pure. Allora preparai delle bombe al carburo recuperando un po’ di scorie dalle bombole esaurite che lasciavano in giro. Le mettevo in una bottiglia, Bum! Bum! Costruii anche un telegrafo così potevamo parlare a distanza con quelli di sentinella: “Tutto a posto laggiù? Vedete movimenti strani?”.
Io da grande avrei voluto fare il costruttore di aerei. In sottordine l’elettronico. Appena diplomato mi chiamarono dal Brasile per lavorare sui satelliti artificiali. Però feci l’attore. Romeo e Giulietta spopolò. Quarantacinque minuti di applausi al Burgtheater di Vienna (record battuto, poi, solo da Pavarotti e Domingo). Una replica la vietavamo ai maggiori di 18 anni. Ricordo questi ragazzini che mentre stavo per prendere il veleno gridavano: “Fermo, non prenderlo”. Diventai attore per caso, mai avuto il fuoco sacro.
A mia madre non interessava molto che facessi l’attore. Solo una volta che andai a cantare con Mina nello show del sabato sera mostrò un certo interesse. Mia madre tra pochi giorni compie cento anni. Legge il giornale senza occhiali e quando vado a trovarla mi dice: “Bambino mio! Che bellissimi capelli hai”.
Mio padre era un tipo di poche parole. Posava cavi sottomarini. Era sempre in giro. Disegnava benissimo. Aveva fatto la guerra in Africa e se l’era vista brutta. Era un uomo pieno di regole. In casa bisognava salutarsi dicendo buongiorno o buonasera. Numerava e datava le lamette da barba che usava. Che gioia andare con lui a prendere le paste la domenica. Io preferivo il diplomatico. Prima di uscire mia madre mi fermava il ciuffo con la molletta. Poi ho scoperto che mio padre aveva una passione per le cassiere dei bar. Erano imponenti, prosperose, facevano da frontwomen del locale, attiravano i clienti. Quando diventai famoso, mio padre mi chiedeva foto con dedica. Erano per le sue cassiere».
The King of Pesto. «Ci beviamo qualcosa? “Per favore, una limonata, ma solo limone, senza ghiaccio. Mi raccomando”. Me l’ha ordinata il medico. Sì, lo confesso: The King of Pesto, il titolo che mi hanno dato in America dopo che spiegai, in tv, come si cucina la pasta al pesto, si è messo a dieta. Una dieta speciale. Non devo mescolare la digestione lenta con quella veloce. Non devo mai mangiare pasta condita col pomodoro (connubio che provoca una deflagrazione digestiva, tipo le bombe al carburo di Archimede Pitagorico) e mai prendere assieme latte vaccino e caffè. Mangiare è bellissimo. Nel libro svelo la ricetta della vera pasta al pesto, quella con il basilico ligure a foglia piccolina, quello timido, che cresce in una strisciolina di terra e non quello sfacciato, con le foglie larghe, spaparanzate, che si usa a Napoli e che sa di menta. Il pesto vero, quello con le patate. Fondamentali perché fanno da catalizzatrici e trattengono il calore perché il pesto è un sugo, una salsa fredda. Come mi fanno incazzare quelli che dicono: “So fare il pesto però la patata io non la metto”. Il pesto non esiste senza la patata! Gli americani volevano farmi scrivere un libro intitolato I 100 spaghetti. Non era una cattiva idea.
Ma non la annoio che parlo così? Come un drogato. Gabriella Greison, che mi ha aiutato a scrivere il libro, è stata proprio brava a fare un racconto filato delle tante cose che dico. Ah, ovviamente, drogato non sono anche se lo hanno detto in giro. Così come hanno detto che sono alcolizzato perso e omosessuale. A me sarebbe piaciuto essere oggetto di tutt’altro tipo di gossip. Un gossip che, magari, mi assomigliasse di più. Genere: ho visto Giannini in un ristorante, si è mangiato tre piatti di pasta e quattro cotolette. Che bello sarebbe stato uno scoop così!».
L’amore e la morte. «Le risate più belle della mia vita me le sono fatte con Mastroianni. Ma certe volte c’è stato poco da ridere. Mi ricordo che sul set della Prima notte di quiete con Alain Delon c’era una tensione insostenibile. Il regista era Valerio Zurlini, un mio grande amico. Una volta Valerio, mollato dalla fidanzata, si mise a letto e non si alzava più. Stava lì con la flebo. Andai a trovarlo. Non lo so, forse ho l’istinto della crocerossina. È che quando una persona mi piace, mi piace anche quando sta male e cerco di aiutarla. Per Valerio ero molto preoccupato anche perché io avevo fatto un film, Il graffio dell’anima, in cui si sosteneva che è scientificamente provato che si può morire per amore in una settimana. Nel film, ero proprio quello che moriva in una settimana a causa di una delusione sentimentale. Sarà davvero così? Morire? Soffrire, forse. Sognare, forse. Comunque, avevo davvero paura che Valerio morisse. La donna per cui soffriva tanto era Jacqueline Sassard. Le francesi! Dino Risi aveva una passione per le francesi (e loro per lui). Era bellissimo Dino Risi, aveva quei capelli bianchi alla Gianni Agnelli. Aveva una gentilezza. Affascinantissimo. Lo invidiavo. Torniamo a Zurlini e alla Prima notte di quiete. Ci teneva molto a quel film. Credo che fosse autobiografico. Era la storia di un professore (Delon) che si innamorava di un’allieva (la bellissima Sonia Petrova, l’avevo scoperta io vedendo a Londra un documentario su Joyce). Il finale del film era tragico. Io facevo la parte di Spider, un medico, un uomo di buone letture, amico di Delon. Un bellissimo personaggio. Il film ebbe un successo clamoroso ma, prima, sul set, Zurlini e Delon litigarono tutto il tempo con me in mezzo a fare il paciere. Non ho mai capito perché si detestassero così. Anni dopo lo chiesi a Delon. Lui, gelido, mi disse: “Questione di pelle”. Valerio non morì quella volta di mal d’amore, morì più tardi e morì male, cirrosi epatica.
Non bisogna avere paura di morire. Penso sempre all’ultimo verso dell’Infinito di Leopardi: “E il naufragar m’è dolce in questo mare”. C’è una dolcezza nella morte. Ci credo sul serio. Qualche mese prima di morire, mio figlio Lorenzo mi chiese, d’improvviso, cosa succede dopo la morte. Io mi inventai lì per lì, non ero preparato, una teoria dei colori: che si passa da un colore all’altro, da una conoscenza all’altra. La morte di un giovane ti cambia la vita, il modo di dare un peso alle cose. Perché un ragazzo di 19 anni deve morire per un aneurisma?
Quando morì Gassman mi successe una cosa strana. Mi sembrava che fosse morto un bambino. Perché eravamo due bambini».
Che grande attore il vento. «Io parlo con gli alberi. E mi capiscono. Me ne sono accorto una volta che avevo piantato dei faggi nella mia casa di campagna. Dopo un mese erano tutti secchi. Ho cominciato a prenderli a schiaffi e gli parlavo in napoletano (mi è venuto così). “Ohì, guagliù, ma che fate? Vi voglio vedere verdi”. La settimana dopo erano tornati tutti verdi.
Ai ragazzi del centro sperimentale insegno a recitare le poesie. Non lo fa più nessuno. È fondamentale. Io ho imparato tutto da Giorgio Albertazzi, ascoltandolo mentre leggeva poesie e romanzi. Ci sono altre due cose importanti che ho capito sulla recitazione. Una è una frase che diceva sempre Monicelli, una grande frase: “Quando c’è il vento, quando c’è la nebbia o la pioggia, non ti preoccupare mai: ci pensano loro a recitare per te”. L’altra cosa che ho capito sulla recitazione si chiama Effetto Kulešov. Nel 1919 il regista Kulešov fece un primo piano all’attore Mozžuchin dicendogli di guardare nella macchina da presa senza fare nessuna espressione. Poi montò quel primo piano dopo l’immagine di una tavola imbandita, dopo l’immagine di un cadavere, dopo l’immagine di una bambina che gioca. Ebbene il primo piano di Mozžuchin sembrava, di volta in volta, quello di un uomo affamato, di un uomo triste, di un uomo intenerito. Eppure l’immagine era sembra la stessa. Per cui dico ai miei allievi: “Non recitate!”. O, come dicono gli americani: “The less you do, the best you do”. Quando si recita si deve farlo il meno possibile.
Ma quanto ho parlato! Sulla mia lapide vorrei scrivessero: “Giancarlo Giannini, un elettronico mancato”. Che posso aggiungere? Ah, due frasi del libro. La prima dice: “Non ho amici giornalisti, non ho amici politici, non ho amici tra le persone che contano”. La seconda dice: “Io non sono stato né ricco, né raccomandato: e ho mandato tante persone a quel paese”».