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 2015  settembre 19 Sabato calendario

VERONESE DESNUDO


Paolo Veronese non fu longevo come Tiziano e Tintoretto, né morì precocemente come Giorgione: visse sessant’anni che al suo tempo, quando si spense a Venezia nel 1588, era una rispettabile età. Caliari era il nome della madre, ma lui divenne il Veronese, quando si trasferì trentenne a Venezia. Aveva avuto umili natali, il padre era solo uno “spezapreda”, un tagliapietra di origini luganesi, e lui stesso imparò a lavorare pietre e marmi. Per altro di una famiglia di lapicidi era parte l’amico e primo mentore l’architetto Michele Sanmicheli: fu lui a introdurlo alle prime commesse. Le prime opere hanno carattere religioso e nella “Resurrezione del figlio di Giairo” (1546), compare una loggia, segno di un’inclinazione per l’architettura. Per altro, quasi a rivendicare la sua origine, in una lettera del 1553 al cardinale Ettore Gonzaga per il pagamento di un dipinto, orgogliosamente si firmò “Paolus spezapreda” coniugando l’aulico latino al dialetto veneto.La “Cena in casa di Simone” (1556) è un convito, primo di una lunga serie, e testimonia quale fosse la sua padronanza della scena architettonica: le colonne del porticato sulla sinistra hanno una loro valenza sintattica, dal loggiato soprastante si affacciano delle figurine e sul fondo del portico buio si vede di scorcio un tempio. Nella coeva “Annunciazione” l’inquadratura prospettica è centrata su un arco di trionfo di foggia palladiana e l’angelo e la vergine sono ai lati estremi delle due colonne in primo piano.
Con il Sanmicheli e Jacopo Sansovino ebbe nella sua maturazione d’artista un ruolo centrale Andrea Palladio di vent’anni più vecchio: le loro vite sono legate a filo doppio a partire dalla metà del Cinquecento. Fu Palladio a definire Paolo “pittore eccellentissimo”. Sin da metà secolo fra i due si stabilisce un rapporto di intensa collaborazione che ha il suo acme nelle architetture dipinte nella villa dei fratelli Barbaro a Maser progettata da Palladio tra il 1559-60. Paolo condivise infatti le passioni del “partito romanista” così rigoglioso nella Serenissima e di cui Daniele Barbaro, primo traduttore dei “Dieci Libri dell’architettura” (1556) di Vitruvio, fu un protagonista e che Palladio illustrò. Paolo fece di Barbaro uno splendido ritratto che è al Rijksmuseum: lo rappresenta seduto allo scrittoio dove è aperto il suo volume e ha in mano un disegno, non ci guarda, è immerso nei suoi pensieri e indossa una mantellina blu su una veste bianca. Carlo Ridolfi (1648) narra che andò a Roma con il procuratore di san Marco Girolamo Grimani, ipotesi confermata da studiosi contemporanei e plausibile a giudicare da quel che dice del “Giudizio universale” quando gli fu intentato il processo dall’Inquisizione: ma di certo la sua opera è intrisa di michelangiolismo e raffaellismo e questa koiné stilistica ne segna indelebilmente tele e affreschi.
La sua opera è alla ribalta grazie alla grande mostra “Paolo Veronese. L’illusione della realtà”, a cura di Paola Marini e Bernard Aikema che si tiene nel Palazzo della Gran Guardia, grazie alla congiunta iniziativa dei Musei Civici di Verona, dell’Università e delle Soprintendenze. Il 15 giugno si è chiusa una superba monografica alla National Gallery di Londra “Veronese. Magnificence in Renaissance Venice” a cura Xavier Salomon che segna l’uscita di un eccellente direttore quale è stato Nicholas Penny. La mostra londinese non poteva essere più diversa da quella di Verona: un ritratto a tutto tondo che sarebbe piaciuta a Winckelmann; quella assai più ricca in corso (fino al 15 ottobre) è molto più problematica con oltre cento opere tra tele e disegni suddivise in sei sezioni con sapienza illustrate in catalogo (Electa).
La mostra allestita con sobria eleganza si chiude con la grandiosa (550 x 1000 cm) “Cena in casa Levi” attribuita agli “Haeredes Pauli Veronensis” ovvero il fratello Benedetto e i figli Gabriele e Carletto che è stata restaurata per l’occasione e che rimanda all’”Ultima cena” del 1573 per la quale subì un processo dell’Inquisizione dal quale uscì indenne con talune correzioni e mutando titolo all’opera. Un Veronese dunque in tutte le sue sfaccettature che analizzano il suo ruolo di artista ben consapevole del mondo dell’architettura a lui contemporanea, attento alla religiosità a cavallo della Controriforma e grande frescante in residenze private e nelle storie che segnano il trionfo della Dominante: perché Paolo fu pittore ufficiale del governo dei Dogi e poiché è impossibile staccare i soffitti di Palazzo Ducale, basta il bozzetto dell’”Allegoria della battaglia di Lepanto” per darsi conto di che narratore di storia fosse il nostro. In questa tela (1572) è raffigurato in basso il cruento scontro tra la flotta turca e quella della Lega Santa: sopra l’allegoria celebra Maria che accoglie le suppliche dei santi patroni Pietro (il Papato), Giacomo e Giustina (la Spagna) e Marco (Venezia). Ma anche Il Paradiso è una narrazione volta in forza di quell’illusionismo a fasce ellittiche che culmina nell’empireo celeste. La temperatura cromatica è scura in basso e si effonde in tinte rosate verso l’alto.
Il sottotitolo della mostra alla Gran Guardia è indicativo: sta a dire che l’illusionismo, il gusto delle immagini da sotto in su così inclini a Giulio Romano, ne è parte costitutiva. E che dire della sua destrezza scenografica autentico filo rosso che attraversa tutta la sua opera? Le impeccabili scene che squaderna nelle sue composizioni aprono un nuovo capitolo nella pittura del Cinquecento che avrà enorme influenza in Europa. Come accadde puntualmente quando s’aprirono al mondo le meraviglie di Villa Barbaro a Maser: se mi chiedessero quale opera di Paolo salvare dal diluvio universale non esiterei a indicarla. Certo ci priveremmo di talune facce di Paolo che non sono meno rilevanti per intendere la personalità non affatto olimpica del nostro che visse con il tema della religiosità con diverse intenzionalità: dalla dolce e notturna maniera dell’”Adorazione dei Magi” (1573-74) dove ogni personaggio inclina a esaltare nei gesti e nell’espressione dei volti la sacralità dell’evento, all’ariosa luminosità del “Matrimonio mistico di santa Caterina” la cui sontuosa eleganza delle vesti la offre ai devoti come altera Maria. Che sia lo stesso pittore del “Calvario” dipinto intorno agli stessi anni può apparire persino inverosimile: la scena è incardinata in una struttura piramidale scorciata sotto in su che ha il suo vertice nella scala e la sua base nel gruppo ai piedi delle croci dove spicca una figura femminile in piedi con abito giallo. Sulla destra un paesaggio dominato da un cielo inchiostro striato da nuvole. L’aspetto più drammatico è proprio l’acida temperatura cromatica del cielo che è segno di una disperazione senza rimedio. Il suo rapporto con i benedettini e gli emergenti gesuiti fu continuo nel tempo, ma tele a tema religioso dipinse anche per privati: una produzione in cui trascorrono episodi della storia sacra.
La memorabile “Nozze di Cana” per il refettorio del convento di San Giorgio Maggiore è una commessa benedettina e Paolo dispiega qui tutte le sue eccezionali risorse coniugando l’architettura di Palladio con un pullulare di personaggi, divisi in gruppi e sotto gruppi, che formano una pulsante scena di vita vissuta e mondana in ogni senso. Cristo è al centro della tavola imbandita, ma l’occhio di chi osserva corre di qua e di là, e quasi non sa dove fermarsi, stordito per quanti sono i volti degli astanti, le figure, le suppellettili, le vesti sontuose, i particolari e quasi si perde il filo di questa insuperata narrazione. Un’insolita libertà iconografica mostra nell’illustrazione della venustà femminile: in “Mosè salvato dalle acque” (1575-1580), la figlia del faraone offre una generosa scollatura.
La seduzione è parte strategica della compositio veronesiana fecondata dal mirabile esempio di Tiziano. L’essere licenzioso di Paolo è assai spesso giudiziosamente protetto dalla copertura del mito e dell’allegoria. Da tempo si ipotizzava che le due ”Allegorie” di Veronese (Los Angeles County Museum of Art) facessero parte di una serie di quattro, ma solo ora sono state scoperte in Italia le due tele mancanti. In tre di esse (1565-70) sono in bella mostra senza alcuna pruderie seno, schiene e natiche - attributi anatomici già consacrati da Tiziano - che Paolo spoglia di ogni aulica austerità. La donna a cui fugge il virtuoso è in una inequivocabile posa discinta. Anzi in una tardissima opera, sopiti i livori controriformistici, “Paolo nel Martirio e ultima comunione di santa Lucia” (1585) che il carnefice affondi la lama “quasi con dolcezza” nel petto della martire non mi pare proprio, visto che il carnefice stende un dito a sfiorare un capezzolo in un rubato atto di libidine. L’erotismo insomma turba i sogni di Paolo. In “Marte e Venere legati da Amore” (1578-80) un particolare è singolare: Venere è nuda, un seno è coperto dalla testa del dio, ma la dea stringe una mammella dal cui capezzolo stilla uno schizzo di latte: possiamo dare cento interpretazioni del significato di questo dettaglio, ma rimane il fatto che è un segno intriso di sensualità.
“Giuditta con la testa di Oloferne” (1575-80) è una splendida e bionda fanciulla, assai elegantemente vestita, che compie un atto violento senza scomporsi e un seno turgido esce dal corpetto: la figura dell’eroina spicca luminosa nella tela e il profilo della figura con il sacco ove porre la testa Oloferne è nero: sembra quasi una scena da “Olympia” di Manet avant-la-lettre per quel contrasto tra luce e buio, tra la candida carnagione e la nera figura che le sta accanto. D’altronde già le allegorie di “Aria, Terra, Fortuna e Abbondanza” che sono nell’Olimpo a Maser sono tutte nude; così come sono discinte la “Prosperità e la Moderazione” nella Sala del Collegio in palazzo ducale. Paolo da una sterzata semantica all’iconografia del nudo e della bellezza muliebre. Quale che possa essere il tema – religioso, mitico, allegorico, profano – Paolo offre una sua versione della seduzione e dell’erotismo certamente audace.