Federico Rampini, il venerdì 19/9/2015, 19 settembre 2015
RICCO COME UN CINESE
Sempre più diseguali. Le distanze tra ricchi e poveri continuano ad allargarsi.La constatazione non vale però solo in casa nostra. La Cina, la più popolosa nazione del mondo, è anche l’unica superpotenza moderna che si definisce comunista.Eppure il teatro su cui si esibisce una plutocrazia sfacciata, volgare, dai costumi opulenti. I nuovi ricchi cinesi compaiono nelle classifiche dei Peperoni mondiali. Fanno salire i prezzi delle penthouse (superattici ) nei nuovi grattacieli di Manhattan, appartamenti che raggiungono costi fino a 100 milioni di dollari. Rappresentano uno dei mercati trainanti anche per il lusso made in Italy. Sono tra i migliori clienti della Ferrari, nonostante il reticolo di autostrade attorno a Pechino e Shanghai sia ormai paralizzato dagli ingorghi e dallo smog. Comprano il più raffinato marmo di Carrara e per le loro dimore principesche. Cominciano a distinguere i migliori vini della Toscana e del Piemonte. Non sono sempre degli intenditori sofisticati, il kitsch e la pacchianeria abbondano, ma nei loro consumi ostentativi non indietreggiano davanti a premi proibitivi.
Qual è l’impatto di questa arrogante esibizione di ricchezza sul resto della popolazione cinese? Dall’inizio della rivoluzione capitalista cinese, che risale al 1979, si è affermata l’idea che le diseguaglianze non contano se la crescita è forte. Questo è un concetto che non nasce in Cina, ma in Occidente. Lo aveva espresso in America una celebre frase fatta propria da Ronald Reagan, il presidente della riscossa neoliberista: «Quando la marea sale, alza tutte le imbarcazioni, sia gli yacht dei miliardari sia le barchette dei pescatori». L’immagine è eloquente. Significa che ai ceti meno abbienti, alle classi lavoratrici, non importa più di tanto se i ricchi diventano ancora più ricchi, purché ci sia una diffusione generale di benessere e le condizioni di vita migliorino per tutti. Deng Xiaoping, il successore di Mao Zedong che ne smantellò gradualmente il comunismo egualitario, in questo senso era un vero reaganiano. «Arricchirsi è glorioso» fu uno dei suoi slogan shock, con cui segnalava una sterzata non solo nelle politiche economiche e nell’accettazione della proprietà privata, ma anche in un paradigma di valori. Da allora, per trent’anni la Cina è sembrata la più valida conferma della teoria reaganiana. La nomenclatura ha costruito una vera base di consenso sociale, grazie alla crescita economica più formidabile della storia umana: mai un aumento di tenore di vita e di consumi era avvenuto a ritmi’così sostenuti, per un periodo così lungo, e soprattutto per una popolazione di queste dimensioni. Effettivamente per tutto questo periodo, che riproduce in una dimensione ancora più ampia il «trentennio glorioso» della crescita post-bellica in Occidente, è sembrato che ai cinesi importasse poco delle diseguaglianze. Le Ferrari e le Bentley non davano fastidio a un vasto ceto medio che nel frattempo poteva permettersi le Toyota e le Audi per la prima volta nella sua storia. Che il presidente Xi Jinping – e il suo predecessore Hu Jintao possano mandare i figli a studiare in una università americana come Harvard con rette annue sopra i 60.000 dollari non è insopportabile, finché tanti giovani cinesi possono laurearsi nel loro Paese e con quel titolo di studio hanno una ragionevole certezza di trovare lavoro in tempi rapidi.
Questo «patto col diavolo reaganiano» comincia però a mostrare delle crepe. Lo sviluppo economico cinese continua a ritmi favolosi, se paragonato con quel che accade nel resto del mondo (batte perfino India, Brasile e Sudafrica, potenze emergenti che hanno subito dei rallentamenti). Tuttavia questa crescita sta producendo tensioni nuove. L’inquinamento di tutte le grandi aree metropolitane infligge dei costi gravi sulla salute dei cittadini. Gli operai di interi settori industriali hanno dato il via a stagioni di scioperi e rivendicazioni salariali. La stessa competizione per i lavori qualificati, tra i giovani neolaureati, diventa sempre più selettiva e spietata. Infine si scorge all’orizzonte una metamorfosi davvero impressionante: per prepararsi allo shock dell’invecchiamento demografico, il capitalismo cinese ha già imboccato la strada dell’automazione. Un Paese da un miliardo e 300 milioni di abitanti, che siamo abituati a considerare come il più vasto bacino di manodopera a buon mercato, si avvia a essere il più grande acquirente mondiale di robot. Proprio perché guardano lontano, i capitalisti cinesi si preparano a un’epoca in cui la manodopera sarà un po’ meno sovrabbondante, più anziana, meno docile, meno a buon mercato. E quindi la sostituzione di lavori con tecnologie e automi avanza a grandi passi anche in Cina. È lo stesso processo che in America ha contribuito a scavare il divario tra l’un per cento della popolazione e tutto il resto, accelerando l’impoverimento del ceto medio.
Un aggravante delle diseguaglianze cinesi, che le rende in qualche modo meno «legittime», o la corruzione. Molte delle grandi ricchezze a Pechino e Shanghai fanno capo a veri imprenditori, di sicuro talento: per esempio Jack Ma di Alibaba (un gruppo di commercio elettronico che equivale a un Amazon + EBay su scala cinese) che si è quotato con successo a Wall Street, un simbolo del capitalismo moderno nella Repubblica Popolare. C’è però un’altra categoria, più simile agli oligarchi russi: sono quei capitalisti cinesi la cui ricchezza è legata agli appalti pubblici, alla speculazione edilizia in collusione con le autorità municipali, alle varie « bolle» finanziarie, ai progetti di infrastrutture statali faraoniche, al sistema bancario dove la trasparenza è minima.
La corruzione è una fonte di malcontento popolare, la prima per importanza, secondo i sondaggi segreti che lo stesso governo fa effettuare periodicamente tra la popolazione cinese. Il presidente Xi Jmping dopo la sua ascesa ai vertici ne ha fatto il suo cavallo di battaglia. La successione da Hu Jintao a Xi Jinping è stata segnata da episodi di «moralizzazione» spietata. Il più clamoroso è il processo a Bo Xilai, capo-partito nella zona di Chongqing. Neppure l’ex capo della sicurezza è stato risparmiato da un processo pubblico. A questi colpi esemplari sferrati al vertice del regime, si è accompagnato un giro di vite ufficiale contro le spese voluttuarie dei gerarchi di partito: stop ai voli in prima classe, agli hotel cinque stelle, ai banchetti «di lavoro» con ostriche e champagne.
Dietro le apparenze di un taglio ai costi della politica, il tema della corruzione in realtà è stato usato solo per colpire gli avversari interni che ostacolavano XI Jinping quanto al presidente stesso, il suo clan familiare controlla ricchezze pari a due miliardi di dollari. Non le ha certo accumulate mettendo da parte gli stipendi governativi. Sempre due miliardi di dollari è la ricchezza familiare che fa capo all’ex premier Wen Jiabao. La ragione per cui siamo in grado di assegnare «una cifra» ai loro patrimoni?
Sono per lo più investiti in società quotate alla Borsa di Hong Kong, l’isola ex-colonia britannica che ha conservato uno Stato d diritto, tribunali indipendenti, mass media liberi dalla censura e un discreto livello di trasparenza societaria. Guarda caso, è proprio su Hong Kong che si stanno scagliando i fulmini della repressione cinese. Il governo di Pechino sta calpestando un impegno già preso, quello di consentire elezioni libere per l’autogoverno di Hong Kong nel 2017. È un arretramento pesante, perfino rispetto allo status quo che si era stabilito dopo il 1997, l’anno in cui Hong Kong tornò sotto giurisdizione cinese. Da allora l’isola era stata gratificata dal principio «una nazione, due sistemi», lo slogan con cui i governi di Pechino concedevano a Hong Kong di continuare ad essere un mondo a parte, con quasi tutte le libertà negate agli abitanti del resto del Paese. Lo status di Hong Kong era ammirato in Occidente, agli ottimisti sembrava la conferma della «ineluttabile» evoluzione democratica della stessa Cina. Una visione economicista della storia, diffusa in America e in Europa tra gli ideologhi della globalizzazione, profetizza la graduale transizione della Repubblica Popolare alla democrazia come conseguenza pressoché automatica e indolore dell’arricchimento dei suoi abitanti. È una teoria che e stata tradotta in una sorta di «indicizzazione delle libertà al Pil»: oltre un certo livello di sviluppo, la democrazia sarebbe destinata a sbocciare come un frutto maturo su un albero. Pechino sta facendo del suo meglio per smentire queste profezie ottimiste.
La libera stampa, le libere elezioni, l’alternanza di governo - cioè tutti quegli strumenti indispensabili per una vera lotta alla corruzione - sono incompatibili con l’arricchimento smisurato e incontrollato delle oligarchie.
Federico Rampini