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 2014  settembre 17 Mercoledì calendario

SOPHIA 80

[Intervista a Sophia Loren] –

Ginevra (Svizzera), settembre
E’ vero, la mia vita sembra un film, un bellissimo film. Mi sorprendo anch’io che sia tutto vero», ammette Sophia Loren mentre ci riceve nella suite 210 del Hotel Metropolitan, a Ginevra. L’attrice il 20 settembre compie 80 anni e, per suggellare la solennità della circostanza, ha deciso di prendere carta e penna e raccontarsi nelle sue pieghe più inedite. Il risultato è Ieri, oggi, domani (Rizzoli), 314 pagine di ricordi e immagini che si divorano tutto d’un fiato e strappano ora un sorriso, ora un fremito di commozione, esattamente come quei capolavori in bianco e nero illuminati dal bagliore della sua bellezza.
Tailleur rosso, mento alzato - a ricordarci che siamo davanti a una star - e i magnifici occhi truccati alla sua maniera: seduti di fronte alla Loren con la giusta dose di tachicardia (siamo pur sempre davanti a un pezzo di storia del cinema), ripercorriamo alcuni momenti della sua mirabolante carriera.

«Conobbi mio padre a 5 anni»
Ecco Sofia piccola, secca secca («Mi chiamavano Stuzzicandenti», racconta col sorriso), che nasce a Roma, nel reparto maternità per le ragazze madri. Sua mamma, Romilda Villani, bionda esplosiva che somiglia a Greta Garbo e sogna di fare il cinema («Pregavo Dio che non venisse a prendermi a scuola, mi vergognavo: la sua bellezza sopra le righe mi metteva in imbarazzo»), è innamorata follemente del suo Riccardo Scicolone ma lui, se all’inizio tentenna e pare quasi accettare l’idea di mettere su famiglia, si stufa presto e si dilegua. Sola e senza soldi, Romilda torna a Pozzuoli, dove è nata, nella casa di mamma Luisa e papà Mimì, i nonni che non a caso Sofia chiamerà per tutta la vita, mammà e papà (Romilda per lei sarà sempre “mammina”).
«Mio padre lo rividi per la prima volta verso i cinque anni», racconta la diva con un velo di amarezza. Ma è chiaro, mentre parla, che furono quelle deprivazioni, la miseria e il dolore di crescere senza un padre, a renderla la donna volitiva e determinata che poi è stata per tutta la vita. «Che altro potevo fare?», chiede guardandoti dritto negli occhi, dopo averti raccontato che durante la Guerra la fame l’ha consumata. «C’erano giorni che non mangiavamo neppure una briciola. Andavo a letto con lo stomaco vuoto e non riuscivo ad addormentarmi». Nel libro l’attrice ripesca i ricordi di lei bambina, tra i sei e gli unidici anni, dal 1940 al ’45. E sono anni duri: «Appena partiva la sirena, correvamo a rifugiarci nel tunnel della ferrovia, sulla tratta Roma-Pozzuoli. Si dormiva lì, accanto ai binari, stesi sulla giaia, vicino agli altri, anche per combattere il freddo».
A fare da contraltare alle difficoltà materiali, spunta sempre il colore della sua città, Napoli. E la fantasia tutta partenopea che aleggia come una benedizione anche sulla sua famiglia.

«il mio vestito fatto con le tende»
«Mia madre insegnava pianoforte e quando la guerra stava finendo per tirare su qualche lira si inventò il bar-caffè casalingo. La domenica apriva il nostro salottino buono ai soldati e io servivo il nostro brandy allungato con l’acqua. Mia sorella Maria aveva già una bellissima voce e cantava», ricorda la Loren.
La svolta, come da copione, arriva per puro caso: un vicino di casa bussa alla porta con in mano il ritaglio del Corriere di Napoli che annuncia un concorso di bellezza. Mamma Romilda ha rinunciato ai suoi sogni di gloria ma è determinata a ottenere un riscatto dal destino. E la sua rivincita si chiama Sofia. «Luisa tirò giù le tende di casa, di taffetà rosa, e in men che non si dica le trasformò in un abito da sera». Sofia così può partecipare alla gara ma non la vince. Viene però eletta tra le bellezze della sua città e dunque conquista il diritto a sfilare in carrozza per le vie del centro e, soprattutto, un biglietto per Roma (il premio comprendeva anche dei rotoli di tappezzeria). Lei ancora non lo sa, ma è in quel momento che la sua vita imbocca la rotta del successo. Per sua madre Romilda, quel biglietto del treno è il lasciapassare per Cinecittà. «Per prima cosa, mi iscrisse a una scuola di recitazione di Napoli», ricorda l’attrice. Sofia a quel punto lascia le Magistrali al secondo anno e si tuffa in una girandola di concorsi (partecipa anche a Miss Italia), diventa protagonista dei fotoromanzi Sogno (col suo primo nome d’arte, Sofia Lazzaro) e fa provini per il cinema. È così che nel 1950 si aggiudica una piccola parte nel kolossal Quo vadis?. Poco dopo il regista Goffredo Lombardo, decide che il nome Sofia Lazzaro non suona bene e inventa per lei l’identità che la renderà celebre: Sophia Loren. La sua carriera sta per decollare: ora non manca più nulla.

Signora Loren, noi conosciamo la diva da Oscar, bellissima e celebrata in tutto il mondo. Lei nel suo libro ci racconta se stessa bambina, donna e madre. E la scopriamo piena di tenacia ma anche di paura. La sera in cui incontrò Cary Grant e Frank Sinatra cambiò vestito otto volte. Era già famosa eppure lei scrive: «L’insicurezza non mi lasciava mai».
«Da piccola ero timidissima e sono sempre stata un’introversa. Per farcela, prendevo un bel respiro e mi buttavo. La paura, però, mi è rimasta tutta la vita. A ogni prova arrivavo tremante e succede ancora adesso. Poi si accende la telecamera e mi passa tutto. Come racconto nel libro, a causa della paura su un set persi la voce, su un altro mi venne la febbre. Ho anche sofferto di una forma di asma di natura psicologica».

L’attrice irrangiungibile per tutta la vita ha girato con un fornelletto a gas in valigia. Alloggiava in hotel di lusso ma si cucinava la pasta da sola.
«È così! Lo faceva mia madre e mi è rimasto dentro come un rito. Qualsiasi bagnetto diventa in un attimo una cucina. A me non piace mai il cibo degli alberghi, preferisco farmi due uova da sola o due spaghetti».
Il 1951 è l’anno dell’incontro con Carlo Ponti, l’uomo che ha cambiato la sua vita. Lei scrive: «Da quel momento è stato un lungo, lunghissimo inizio, che abbiamo vissuto insieme senza lasciarci mai». Cosa le ha insegnato e cosa le ha dato l’amore con Ponti?
«Mi ha dato e insegnato tutto. Io sono la persona che sono anche grazie a lui. Lo incontrai che ero una ragazzina di 17 anni e lui mi è stato vicino da subito come un padre: la prima volta che mi convocò nel suo ufficio aprì un baule di abiti di scena e me ne regalò uno. “Prendilo”, mi disse, “l’ha indossato Gina Lollobrigida”. Fu lui che iniziò a farmi fare i provini anche se andavano sempre male: i tecnici dicevano che non avevo il viso adatto alle riprese, la bocca troppo grande, il naso troppo pronunciato, il viso corto... Carlo mi propose persino di accorciarmi il naso ma figuriamoci se io potevo accettare una cosa del genere!».

Ha cambiato idea sugli uomini dopo l’incontro con Ponti? La vita l’ha risarcita a quanto pare. Da adulta ha incontrato uomini straordinari che l’hanno aiutata a tirare fuori il meglio di sé.
«Assolutamente sì. Penso a Vittorio De Sica, a Chaplin, a Mastroianni, a Ettore Scola e provo un profondo senso di gratitudine. Quanto a Ponti, io sapevo già allora che mio padre era anormale perché vedevo i papà delle amiche comportarsi diversamente. Però quando incontrai Carlo iniziai a sentirmi finalmente capita e protetta, a lui bastava uno sguardo per sapere cosa pensavo. Fu lui a impormi di imparare l’inglese affiancandomi per mesi una insegnante madrelingua. Carlo mi aiutò anche perdere l’accento napoletano e mi insegnò persino come vestirmi. Mi regalò un tailleur bianco e mi disse: “Devi sempre vestirti di bianco, ti dona”».

Lei è stata a fianco degli uomini più belli del pianeta e li ha pure baciati. Da Cary Grant a Paul Newman, da Richard Burton a Omar Sharif, tanto per dirne qualcuno. Come ha fatto a non prendere mai una sbandata? A non finire mai al centro di un gossip?
«Eh no! Noi mica ci baciavamo davvero sul set, non era come adesso che addirittura si mordono. E poi io sapevo che cosa desideravo: più di qualunque altra cosa al mondo volevo una famiglia. E da quando io e Carlo capimmo di essere innamorati, nel 1954, sul set de La donna del fiume, io sentii che lui era l’uomo della mia vita e il resto non mi interessava più».

Però la strada per arrivare alla serenità era ancora lunga: Ponti era sposato, aveva due figli e non esisteva la legge sul divorzio. Lei poi nel 1957 sul set di Orgoglio e passione, incontrò Cary Grant e per sei mesi lavoraste fianco a fianco. Tanto è vero che lui si innamorò. Nel libro lei racconta: «Mi guardò negli occhi e disse semplicemente “Mi vuoi sposare?”. «Le parole mi si strozzarono in gola».
«Cary era un uomo speciale, pieno di grazia e di gioia di vivere. E ci capivamo perché, come me, aveva un passato difficile alle spalle. Io però avevo chiaro che volevo vivere nel mio Paese e desideravo una vita normale. Tra noi ci fu una profonda amicizia che poi è durata per tutta la vita. Volle conoscere i miei figli e mi chiamò un’ultima volta proprio prima di morire».

Ponti non era geloso?
«Non gliene davo motivo».

E lei signora Loren? Un produttore è sempre circondato da donne bellissime.
«Ero molto gelosa, tutta la vita. Quando accadeva non facevo scenate, smettevo di parlare. Il mio mutismo era il segnale che qualcosa non andava e Carlo lo sapeva».

Lei racconta dei pomeriggi passati a giocare a Scarabeo con Richard Burton. Di Chaplin che la invita a casa sua e le cucina le patate al caviale. Di Marlon Brando che le tocca furtivamente il sedere. Di Omar Sharif che la sfida ai fornelli con la parmigiana di melanzane. Delle lettere che si scambiava con Marcello Mastroianni. Delle risate con Peter Sellers. Di John Turturro che si presenta nudo... Come fa a voltarsi indietro e a non inciampare nella nostalgia?
«Io sono una persona positiva, guardo sempre avanti. A ogni gradino superato mi sono preparata per quello dopo, non c’è stato mai tempo per la nostalgia. Le sfide e la passione ti mantengono sempre giovane. E poi io ogni giorno mi invento qualcosa che mi fa stare bene, anche una piccola cosa come leggere o mettere ordine tra le mie cose».

Nel libro ha parole di affetto e ricoscenza per De Sica e Mastroianni ma le emozioni più forti sono tutte per i suoi figli, Carlo jr ed Edoardo. Quando nacque Carlo rimase addirittura 50 giorni in clinica per goderselo...
«Non volevo andarmene! Fortuna che il mio medico aveva bisogno della stanza, mi obbligò a tornare a casa! Dicevo che avevo paura che uscendo mio figlio avrebbe preso il raffreddore. In realtà temevo di non cavarmela da sola. I miei figli e i miei nipoti, sono il grande successo della mia vita. Io mi commuovo ancora ogni volta che li vedo insieme e mi emoziono a ogni loro successo. Non parliamo dei miei quattro nipotini.... Sono la nonna più felice del mondo».

Il titolo del suo libro cita anche il domani. Lei cosa desidera?
«Per me vivere è avere ogni giorno nuovi traguardi. Io non voglio smettere mai di imparare».