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 2014  settembre 19 Venerdì calendario

CALIFFATO TV, ORA LA JIHAD È DIVENTATA UNO SHOW A PUNTATE

WASHINGTON
Certamente più sottile della lama che trancia la gola, ancora più umiliante delle confessioni estorte con la tortura, lo show televisivo che un altro prigioniero dell’Is lancia via YouTube è un segnale della nuova strategia mediatica dei jihadisti assassini e forse un sintomo di debolezza. La prima puntata del “magazine” tv del Califfato che John Cantlie, fotoreporter inglese ostaggio, ha illustrato ieri attraverso la Rete viene subito dopo il “prossimamente” grandguignolesco del trailer hollywoodiano diffuso dai terroristi e dopo quelle tre decapitazioni che hanno devastato quel poco di simpatia che la loro campagna di schiavizzazione e di sterminio dei kafir, degli infedeli, poteva avere sollevato.
La tecnica del prigioniero costretto a pronunciare editti favorevoli al boia è naturalmente antica e ben collaudata. Il ricordo corre subito alle disperate lettere di Moro dai covi delle BR e alle testimonianze filmate dei prigionieri americani nell’”Hanoi Hilton”, il lager nordvietnamita, convinti da mesi di percosse e privazioni a denunciare l’infame attacco dell’imperialismo. Ma l’idea di uno show televisivo, un magazine a puntate prodotto dall’interno dell’organizzazione che ha in pugno il povero “anchorman” è nuova. Testimonia non soltanto dell’influenza occidentale sulla propaganda jihadista, ma della necessità di rispondere al disgusto che spettatori e cittadini di buon senso nel mondo civile stanno provando per la loro brutalità.
John Cantlie, per ora vivo e sicuro di rimanerlo fino a quando servirà come conduttore dello show come lui stesso mestamente dice, è un giornalista di caratura professionale e peso internazionale assai superiore ai due disgraziati freelancer americani maciullati o al cooperante inglese che abbiano visto sgozzare. ll suo pedigree familiare è molto upper class borghese, con padre e nonno imprenditori e costruttori di ferrovie in Asia. Il suo curriculum è di prima categoria, come inviato per tutte le maggiori testate giornalistiche inglesi, dal Times al Daily Mail, e il suo coraggio ammirevole: già era stato catturato da fazioni dei ribelli anti-governativi in Siria e liberato con una fuga disperata. Un colpo di Kalashnikov lo aveva raggiunto al braccio sinistro, semiparalizzandolo. Eppure, curato, aveva voluto tornare sulla scena per essere di nuovo rapito e poi passato di mano, di banda in banda, fino al fondo del pozzo, del Nuovo Califfato.
La sua voce è chiara. Il suo aspetto smagrito, ma non sofferente, per essere reso presentabile. Il tono rassegnato, dentro la solita tuta arancione scelta dai costumisti di questi spettacoli per richiamare l’aspetto dei prigionieri degli americani. La dizione è perfetta, da public school britannica, che non sfigurerebbe in un un notiziario della Bbc. La pretesa di giornalismo è, e deve essere soprattutto per lui che la professione ha praticato davvero, palesemente grottesca, come lui stesso, con appena uno “hint”, quel sospetto di ironia molto inglese insinua, quando ammette di parlare «sotto la minaccia di morte dei miei carcerieri» facendo il gesto di portarsi una rivoltella alla tempia.
Il nostro inviato nel mattatoio dei fondamentalisti — «può darsi che viva, può darsi che mi uccidano» — dice ovviamente ciò che gli viene imposto di dire, anche se non può mai essere scontata quella “Sindrome di Stoccolma” che induce le vittime a solidarizzare con i loro aguzzini. Chiede, come tutte le marionette parlanti o scriventi dalla prigionia, una trattativa per salvarlo, rimproverando ai governi di Londra e di Washington di non volere negoziare, a differenza di altri Paesi e di correre verso la guerra. Ma soprattutto promette molte puntate di contropropaganda.
Sarà l’anchor di documentari costruiti per mostrare «l’altra faccia della storia», perché «ogni storia ha due facce» ed è facile immaginare quali collage di orrori perpetrati dagli altri formeranno i suoi futuri show. L’idea del programma è infatti un classico di ogni propaganda: gli altri, loro, quelli che vi fanno credere di essere migliori, sono anche peggio di noi. Radio Mosca, Radio Praga, la tv sovietica, i media cinesi negli anni della Rivoluzione Culturale pullulavano di “documenti” che illustravano le infamie della vita nei Paese capitalisti e borghesi.
Colpisce, nei tre minuti della presentazione, la qualità tecnica della produzione e della postproduzione. Ci sono almeno tre angoli di ripresa, sempre in primissimo piano, prima frontale e poi dal due lati del volto, quasi a voler sottolineare subliminalmente lo slogan della «due facce» della storia. È un altro salto di qualità nettissimo dai video sgranati e dilettantistici, dalle audiocassette gracchianti spedite dalle grotte e dai bunker di Osama bin Laden, l’indizio — come aveva detto ieri un produttore televisivo americano — che fra i tagliagole dell’Is ci deve essere qualcuno che non soltanto ha masticato molto cinema e molta tv degli “infedeli”, ma può avere imparato il mestiere a Londra o in America.
Il “tv magazine” dall’abisso non servirà certamente a rovesciare l’esecrazione per tutto ciò che l’Is rappresenta e che pratica, anche se l’illuminazione, la scenografia e la produzione si fanno sempre più lucidi e sofisticati. Tradiscono semmai il sospetto che i tagliagole pensino di avere un pochino ecceduto, con quelle macellazioni e quei tentativi di genocidio e vogliano, attraverso un prigioniero, dipingersi un volto più umano sopra il passamontagna nero. Cantlie, per sopravvivere, dovrebbe dare credibilità alle menzogne dell’Is e gli auguriamo eccellente share e ampia audience, per salvargli la vita.
Quando John Cantlie ci implora di guardarlo, di vedere «all’altro volto» di questa guerra, sembra di leggere la speranza che, a lui, i carcerieri lascino quel volto sul corpo.
Vittorio Zucconi, la Repubblica 19/9/2014