Daniele Bresciani, Amica 16/9/2014, 16 settembre 2014
FIGLIO DEI FIORI
[John Tebbs]
Lo scorso Natale gli hanno chiesto se voleva interpretare Santa Claus a una festa di bambini: lui ha sorriso, ma ha declinato l’invito. E non l’ha nemmeno presa tanto bene: «È per via della barba: ce l’ho sempre avuta, fin da ragazzo, ma ora è piuttosto lunga, visto che l’ho lasciata crescere per più di un anno, limitandomi a qualche spuntatina per darle una forma. Solo che quando mi paragonano a Babbo Natale o a Gandalf, lo stregone buono de Il signore degli anelli, li sento personaggi un po’ in là con gli anni rispetto a me. Qualcuno ha tirato in ballo anche la somiglianza con Gesù, ma onestamente non credo di avere le sue capacità». La teoria del lasciare crescere spontaneamente limitandosi a qualche spuntatina è più o meno la stessa che John Tebbs applica nel suo lavoro di giardiniere: badate bene, non paesaggista, non esteta del verde urbano, non architetto delle betulle e delle ortensie. Giardiniere. Su questo punto John, 35 anni, occhi chiari, barba (come detto) da hipster e look curato in ogni dettaglio – pantaloni e camicia nera aperta su una canotta grigia, scarpe da ginnastica in tinta portate senza calze – non transige. A dire il vero, si fa un po’ fatica a credere che lo sia realmente, quando mi riceve nella sua casa di Twickenham, nella zona sud-ovest di Londra. In parte proprio per l’aspetto chic e le mani curate, senza l’ombra di una screpolatura che dimostri il minimo contatto con la terra. In parte perché il giardino di casa sua è un fazzoletto di pochi metri quadrati, senza erba ma solo ghiaia, con un tavolino sgangherato in mezzo, scatole con vasetti di minuscoli cactus sparse un po’ ovunque («Li ho utilizzati per un lavoro e continuo a regalarli ad amici e conoscenti, ma non finiscono mai», dice) e rampicanti sui muri di confine. Insomma, non è esattamente ciò che ti aspetteresti da quello che viene considerato uno dei nuovi modelli da seguire in questo campo, anche grazie al sito The Garden Edit (thegardenedit.com) che, oltre a dispensare consigli e vendere utensili di design, è diventato un giornale on line e un luogo di incontro per appassionati e professionisti. Ma poi Tebbs espone la sua teoria: «Lo so, prima che arrivaste ho pensato: “Mio Dio, è un angolo impresentabile per uno che fa la mia professione”. Ma vivo qui solo da tre mesi e non ho ancora capito come lo voglio. Qualsiasi giardino in principio è una tela bianca, poi si comincia a immaginare come può diventare e infine lo si cambia, lentamente, giorno dopo giorno. A me piace che sia spontaneo e che sia uno spazio di condivisione».
Ha sempre voluto fare il giardiniere?
È una tradizione di famiglia. Sono nato ad Ashby-de-la-Zouch, un villaggio delle Midiands, mio padre aveva un terreno dove passavo tutto il mio tempo dopo la scuola. Al termine delle superiori ho studiato Storia del Design all’università di Norwich e per un anno ho insegnato inglese a Praga. Ma mi sono quasi subito reso conto che non faceva per me. E così nel 2006 sono tornato a casa, ho seguito un corso di gardening design e ho iniziato a considerarlo il mio lavoro.
Lei vive a Londra, una metropoli che è costellata di parchi e dove molte case hanno il proprio giardino. Al contrario delle grandi città italiane, in cui è più difficile avere spazi verdi privati.
Sarà senz’altro come dice, ma sono stato di recente a Milano e, guardando in alto, mi sono accorto che i balconi erano un’esplosione di piante e di fiori. Bellissimi. Se lo aiuti con impegno e con fantasia, il verde trova sempre il suo spazio, se non è in orizzontale è in verticale.
Che cosa pensa dei reality sul giardinaggio?
Li trovo insensati. Arriva una squadra di giardinieri che in quattro e quattr’otto porta prato, piante e fiori. Ma non è così che dovrebbe funzionare: il giardino ideale richiede tempo per essere pensato da chi lo vivrà e non può essere creato solo secondo i criteri estetici del giardiniere.
C’è qualcosa che non deve mancare mai in un giardino?
Anche qui non credo che ci siano delle regole. Non è come una casa, dove almeno un letto, un tavolo e delle sedie devono esserci sempre. Dipende da che cosa cerchi, da come lo vuoi utilizzare: tra un luogo di meditazione e uno spazio per le feste c’è molta differenza.
A volte per criteri estetici o paesaggistici si sacrificano piante e aree verdi. Secondo lei è giusto?
Naturalmente penso che sia una follia. Spesso vengono tagliati alberi bellissimi per far vedere meglio un panorama. Come se la gente non sapesse che in quel punto ci sono quel fiume o quel lago.
Parla ai suoi fiori?
Onestamente no. Ma se qualcuno lo fa, io non ho proprio nulla da rimproverargli: se si sente bene così...
Quali sono i giardini che la emozionano di più?
Nei miei ricordi di bambino c’è quello di mio nonno: viveva in una villetta a schiera e aveva questo fazzoletto di tre metri per tre che curava in ogni dettaglio, dall’erba, sempre perfetta, ai colori dei fiori. Poi ci sono i grandi giardini, come per esempio il meraviglioso Great Dixter, nel Sussex, o l’High Line, il parco appeso nel cielo di New York, realizzato su una vecchia linea ferroviaria sopraelevata. Concetti opposti ma ugualmente splendidi.
Che cosa direbbe a un ragazzo che volesse fare il suo mestiere?
O a una ragazza... O a una ragazza, certo.
Direi che non si fanno milioni, a meno di diventare una superstar del ramo, ma che è un bel modo di stare in contatto con le stagioni e di prendersi cura di quello che ci circonda. Per certe persone, come me, che soffrono a restare chiuse in un ufficio, avere l’occasione di lavorare all’aria aperta è una benedizione.
Sul suo sito, accanto a innaffiatoi e vasi che sembrano progettati da un maestro zen o a zappe così belle che pare un peccato sporcarle di terra, c’è anche la foto di un nanetto con la canna da pesca in mano. Non è una contraddizione?
E perché? Era nel giardino di una signora per cui ho lavorato e ho pensato che ci stesse benissimo. Niente regole, appunto.
In effetti, tra i due c’è una certa somiglianza. Anche il nanetto risparmiato ha la barba, ma è alquanto improbabile che a John Tebbs venga richiesto di indossare i panni di Gongolo e di canticchiare “Ehi oh, ehi oh, andiamo a lavorar”: i suoi quasi due metri di altezza lo mettono al riparo dall’eventualità.