Marco De Martino, Vanity Fair 18/9/2014, 18 settembre 2014
PAPÀ È UN TAXI GIALLO
[Intervista a Marin Hopper] –
Negli anni Sessanta sfrecciava su Sunset Boulevard a bordo del taxi giallo che suo papà aveva comprato per portarla in giro, ignorando i passanti che cercavano di fermare la macchina con il braccio alzato. Suo papà era Dennis Hopper: nei giorni feriali portava Marin alla scuola privata che frequentava a Bel Air, nei weekend viaggiava verso Malibu a trovare la sua madrina Jane Fonda e il marito Roger Vadim: «Avevano vissuto assieme in Francia per qualche anno e mi ricordo quanto elegante era Jane, che a pranzo preparava bouillabaisse per tutti», ricorda Marin Hopper. «Di pomeriggio Peter Fonda, con cui papà poi avrebbe fatto Easy Rider, cominciava a suonare la chitarra. Poi c’erano gli artisti amici di mio padre, a partire da Ed Ruscha. E papà portava sempre con sé la sua macchina fotografica».
Dennis Hopper è entrato nella storia del cinema come l’attore maledetto che sullo schermo si trasformava nello psicopatico Frank Booth di Blue Velvet o nel giornalista ossessivo di Apocalypse Now, e che nella vita entrava e usciva dalle cliniche di disintossicazione. Ma quando chiedo a Marin Hopper come avrebbe voluto essere ricordato suo padre, lei non ha dubbi: «La cosa più importante, la sua passione, erano le sue foto». Attraverso le sue immagini, che dal 23 settembre sono in mostra alla Gagosian Gallery di Roma, si può rivivere la storia degli anni Sessanta. Martin Luther King e le marce per i diritti civili, Andy Warhol e la nascita della Pop Art, i Jefferson Airplane e l’epoca del free love nata all’angolo di Haight e Ashbury a San Francisco: Hopper c’era. Ma della mostra fanno parte anche istantanee più intime come quelle della serie Drugstore Camera, chiamate così perché le foto vennero ritrovate quasi per caso nella busta del negozio qualsiasi dove l’attore le aveva portate a sviluppare alla fine di un viaggio on the road insieme a Marin.
Si ricordava di quella vacanza, prima di trovare le foto?
«Sì, ma non del fatto che mio padre portava con sé una macchina fotografica. Aveva appena finito di girare Easy Rider. Io avevo 9 anni e ricordo che viaggiavamo su una Pontiac station wagon insieme alla famiglia di Bob Rafelson, che aveva prodotto il film: io indossavo una giacca gialla, i jeans ed ero eccitata perché avevo comprato un paio di mocassini. Partimmo da Los Angeles e passando per il Grand Canyon arrivammo a Taos, la città del New Mexico che mio padre aveva appena scoperto e dove poi avrebbe vissuto a lungo: fu come scoprire un altro mondo».
Che ricordo ha della sua famiglia?
«Mio nonno materno Leland Hayward era un famoso agente e di conseguenza era la mamma ad avere tutte le relazioni che contavano a Hollywood. Prima di Easy Rider per mio padre era difficile trovare lavoro. Furono gli anni in cui fece insieme a mia madre piccole parti in telefilm come Bonanza, e in cui cominciò a fare foto, anche grazie a Diana Vreeland che gli chiese di fotografare gento cool come lui per Vogue. Papà non ha mai ritoccato una foto: era convinto che bisognasse cogliere l’attimo, condivideva la filosofia di Henri Cartier-Bresson. Anche per questo si divertiva di più a fotografare gli artisti rispetto agli attori, che avevano sempre l’esigenza di apparire al loro meglio».
Fu così che divenne amico di tutti i grandi artisti pop.
«Amava la pop art al punto che il giorno della mia nascita disse a mia madre che doveva assolutamente andare a comprare i nuovi quadri di scatole di zuppa Campbell che faceva Andy Warhol. Costavano 75 dollari, ne prese più di uno. Mamma disse: “Zuppa? Allora li appendiamo in cucina?”. E papà: “No, non hai capito, questi sono del tipo che va in salotto”».
Sua madre condivideva l’amore per l’arte?
«Sì. A un certo punto persero la casa nell’incendio di Bel Air, e andarono a vivere da Vincent Price dove osservarono il suo modo di accostare arte contemporanea a mobili antichi, scuri, di derivazione italiana o spagnola. Con i soldi dell’assicurazione si misero a comprare nei negozi dell’usato, facendo affari incredibili: a Los Angeles i ricchi pensavano che le lampade di Tiffany fossero sporche perché erano state usate da altri. Nacque anche così la Pop House, la casa della mia infanzia».
È stata vicina a suo padre anche nei momenti più drammatici della sua vita?
«Conoscevo il suo lato oscuro, ma ne sono stata tenuta alla larga da mia madre. Tutto è cambiato quando ha smesso di bere, e abbiamo parlato spesso del fatto che la sobrietà non lo avesse reso più prudente o conservatore: era rimasto lo stesso, con la stessa voglia di sperimentare la vita anche a rischio di dover ricominciare da zero. Lo aveva fatto tante volte: era come uno di quei personaggi dei fumetti che cadono nel baratro e risalgono indenni. Era un grande, e mi manca tantissimo non potere andare a vedere opere d’arte con lui, o semplicemente parlare: anche nei momenti più tristi riusciva a farmi ridere».