Roberto Beccantini, La Gazzetta dello Sport 25/9/2014, 25 settembre 2014
I 20 ANNI DEI 3 PUNTI. HANNO SMOSSO I GOL MA NON LE COSCIENZE
Nella stagione 1994-’95 il campionato italiano si convertì ai tre punti per vittoria. Ricordo la curiosità, l’emozione, la diffidenza. Sono passati vent’anni. L’edizione inaugurale premiò la Juventus di Marcello Lippi. Il cambio di mentalità fu immediato, netto. Il Milan di Fabio Capello, tanto per rendere l’idea, aveva conquistato l’ultimo degli scudetti «tradizionali» con questo ruolino: 19 vittorie, 12 pareggi, 3 sconfitte. La Juventus lippiana raccolse 23 successi, 4 pareggi e ben 7 sconfitte, record che persiste tuttora.
Sono aumentati i gol, non è scomparso il pareggio, bersaglio giurato della svolta. Pesa di meno, certo, ma conserva un fascino perverso, difficile da sradicare. Ai tre punti si era arrivati studiando e copiando il modello inglese, operativo dal 1981-’82. L’idea, di natura squisitamente pratica, aveva anche un intento etico: circoscrivere gli armistizi, ridurre i patti di non aggressione che, soprattutto a fine torneo, esercitano un forte potere seduttivo. Come certifica il rigurgito degli scandali legati alle scommesse, dall’Asia all’Europa, la terapia ha smosso i gol, non le coscienze.
Qual è stata, nella storia del calcio moderno, la scintilla più rivoluzionaria? Per me, la limitazione del passaggio al portiere. Venne introdotta nel 1992, accorciò le sieste post parata, rese meno pigro il ritmo delle partite. E contribuì ad aggiornare il ruolo, sabotandone l’essenza.
Non si può non parlare del trambusto che ha accompagnato il fuorigioco. Fino al 1925, i giocatori di «confine» erano tre, addirittura: il portiere più due difendenti. Da allora, scesero a due (uno più uno). Ne seguì un fermento tattico così fertile che spinse Herbert Chapman a proporre il «Sistema». Tralascio gli interventi successivi: la chirurgia invasiva ha letteralmente sfigurato il volto dell’off-side.
L’espulsione per fallo da ultimo uomo in regime di chiara occasione da gol ha costituito un altro passaggio cruciale. In avvio, si diede precedenza all’agguato; in seguito, alla opportunità. Sempre all’alba dei Novanta risale la trasparenza del recupero, suggerita da Paolo Casarin. Non che gli arbitri fischiassero al 90’ spaccato. Il problema era la clandestinità delle «mance». Con una grande di mezzo, e magari in svantaggio, erano molto generose. Il popolo voleva sapere. Seppe.
La prova tv, come no. E le sostituzioni: da zero a tre, e presto quattro. Era il 1966, quando a Middlesbrough, il giorno della fatal Corea, il ginocchio di Giacomo Bulgarelli non resse e gli azzurri rimasero in dieci.
I cartellini, poi. Al netto di un tocco romanzesco che non guasta, sulle ammonizioni era nato un commercio che, dal campo agli spogliatoi, coinvolgeva terne, dirigenti, giocatori. In assenza di un segnale pubblico, il segno privato sul taccuino era facilmente negoziabile. Fu l’inglese Kenneth Aston a inventarli; proprio lui, l’arbitro della celeberrima battaglia di Santiago (2 giugno 1962: Cile due Italia zero, Ferrini e David cacciati). Fermo a un incrocio di Londra, il semaforo lampeggiò. Giallo, rosso: un colpo di clacson non gli tolse il sorriso.