Luigi Chiarello, ItaliaOggi 17/9/2014, 17 settembre 2014
DIFFIDO DAI NOBEL DI ECONOMIA
Stefano Lorenzetto non sbaglia un colpo. Le sue interviste si bevono di getto come un bicchier d’acqua fresca di fonte. E non solo per la sagacia dell’intervistatore, ma perché parlano del paese reale alla pancia del paese.
I suoi personaggi stupiscono perché sono frutto di attenta selezione.
Come se, con un monocolo, Lorenzetto ne misurasse spigolature e luminosità prima di intervistarli. E ne scegliesse tra tanti solo alcuni, in base al ritmo di pensieri e parole. Proprio come fa un gioielliere con le sue pietre.
Fabio Franceschi è uno di questi preziosi. Leggere la sua storia incastonata nel libro L’Italia Che Vorrei (Marsilio, in vendita da domani), vale più di mille seminari formativi di qualunque ateneo del Paese.
Padovano, 45 anni, di famiglia poverissima, fino ai 6 anni Franceschi mangiava solo una volta al giorno. E sempre lo stesso piatto: «risi col late».
Orfano a 19 anni, ha dovuto lasciare gli studi e darsi all’impresa. Salva la Grafica Veneta fondata dal padre, si butta anima e corpo sulla stampa dei libri. Oggi la sua azienda è leader in Italia e prima d’Europa nel settore per redditività. Fattura 150 mln l’anno, serve oltre 200 case editrici. Ha 300 dipendenti, di cui 40 assunti nell’ultimo anno. Crisi o non crisi.
Insomma, Franceschi è come un unguento sulle macilente ferite dell’Italia in declino.
Perché è uno che da speranza. Ma l’uomo è anche altro: una severa cartina di tornasole. La sua narrazione misura la distanza siderale tra la logica di chi rischia del suo e il pantano di un sistema sclerotizzato. Sequestrato dai burocrati.
«Io vorrei solo un Paese governato da una persona competente, intelligente, che non aspiri al Nobel per l’economia», dice a Lorenzetto. «Mi basta un ragionier Brambilla che non voglia diventare un mostro del piccolo schermo con otto ore di esposizione al giorno».
La stoccata è per Matteo Renzi, ma la stroncatura boccia l’intera classe dirigente: «Non si vedono in giro leader degni di tale nome. Solo mezze calzette, comprimari, controfigure. Gente fru fru, tutta teatro e lustrini. Invece abbiamo bisogno di uno con le balle quadrate che parli poco e lavori tanto».
Di Giorgio Napolitano dice «talvolta è stato di parte». Grillo, invece, gli ricorda «Caligola che nominò senatore il suo cavallo».
Ma è sul Matteo nazionale che scarica la frustrazione: «Dall’ossequioso Enrico Letta siamo passati a uno spaccamontagne che non ha mai lavorato in vita sua. Che crede di poter governare l’Italia a colpi di tweet digitati alle 6 di mattina sul suo smartphone. E che ha investito 10 mld di euro, non suoi, nostri, nella campagna elettorale più cara del secolo: gli 80 euro».
Almeno ne è valsa la pena? Macché: i suoi ministri «sono ostaggio di un apparato burocratico che sta lì dal 1946, inamovibile, formato da consiglieri di Stato, magistrati della Corte dei conti, capi di gabinetto, consiglieri giuridici, consiglieri legislativi, consiglieri militari, un esercito di boiardi che ha già seppellito 26 presidenti del Consiglio, prima di Renzi».
Al leader Pd non riconosce nulla di Machiavelli se non l’ansia del Principe nel voler sopravvivere a se stesso: è «un trottolino amoroso che maschera la sua inadeguatezza con l’iperattivismo e le smorfie alla mister Bean».
Il Rottamatore, dunque, e la burocrazia: «la madre di tutte le tangenti», sbotta. Per Franceschi sembra siano due costanti, quasi iconiche del malessere del Paese: la malattia e la terapia palliativa. L’una a legittimare l’esistenza dell’altro e viceversa. Senza illusioni. Per noi idealisti, insomma, la penna di Lorenzetto è un bisturi. Non da vie di fuga, non consente alibi. Politicamente il «suo» Franceschi non è nostalgico e il passato non ci offre né paradigmi né eroi.
Per cominciare, non nominategli Mario Monti. Di lui dice: «Ha insegnato per una vita il modo per far funzionare le economie, ma non le ha mai fatte funzionare». E anche al «suo amico» Berlusconi non lesina rimbrotti: «Quando nel 1994 scese in politica, lo fece per salvare le sue aziende, non per salvare l’Italia».
Del resto, «è circondato da una corte di lacchè che lavorano unicamente per mantenere i loro privilegi».
Solo una persona convince davvero Franceschi. A tal punto da confessare l’indicibile: «Io per una dittatura morbida di Sergio Marchionne ci metterei la firma subito. Oltretutto è figlio di un carabiniere. Ed è taciturno quanto basta». Il silenzio, una dote. Che non riconosce a Giorgio Squinzi. Il capo di Confindustria gli fa saltare i gangheri: «A chiacchiere, ben pochi possono competere con lui. Ma nei fatti è un disastro». Sbaam!
Insomma, il «Signore dei libri» ne ha per tutti. Ma allora, com’è questo benedetto Paese che Franceschi vorrebbe? È semplicemente un’Italia semplice, ma attenta al sociale. Si chiede: «È mai possibile che in Italia vi siano ben 8.057 comuni, quasi la metà di quelli Usa che hanno un territorio 33 volte più vasto?». E le maledette tasse (che saranno pure belle, però_)?
La ricetta dell’imprenditore è chiara: La giusta aliquota fiscale dovrebbe essere «un quarto omnicomprensivo del ricavo. Più che altro», aggiunge, «bisogna trovare una formula affinché sia un quarto uguale per tutti».
Insomma Franceschi vuol tassare solo il 25% del reddito, ma niente furbi. Contro gli evasori, dice a Lorenzetto, «dovremmo avere il coraggio di portare l’Iva al 45% e di abolire tutte le altre tasse. Pagando giorno per giorno, i controlli diventerebbero estremamente più facili. Come fai a sentirti in regola in un Paese dove ogni mattina ti puoi dimenticare un balzello?».
Luigi Chiarello, ItaliaOggi 17/9/2014