Piero Negri, La Stampa 16/9/2014, 16 settembre 2014
“IO E PUPI: DUE ALIENI UNITI DAL JAZZ”
L’incontro tra Raphael Gualazzi e Pupi Avati, a pensarci ora, sembrava scritto nel destino. Inevitabile. Li unisce una parola capace di contenere mondi interi: jazz.
Gualazzi ha 32 anni e un curriculum ricco a cavallo tra jazz, canzone d’autore e Festival di Sanremo, ma non s’era mai cimentato con una colonna sonora. Ci voleva Avati, che da ragazzo suonava il clarinetto nella bolognese Doctor Dixie Jazz Band (abbandonò nel 1962, messo all’angolo dall’arrivo nel gruppo del talentuoso Lucio Dalla), per coinvolgerlo in Un ragazzo d’oro, il film che uscirà venerdì e che ha come protagonisti Riccardo Scamarcio, Cristiana Capotondi e una sorprendente Sharon Stone.
«Ci siamo incontrati a Roma negli studi dove lui ha un ufficio - racconta Gualazzi -. Abbiamo parlato dei nostri gusti, di jazz, certo, ma anche di canzone, del mondo afroamericano non solo dal punto di vista musicale. Abbiamo scoperto di avere in comune molti interessi, dal jazz Anni Trenta e Cinquanta a certi sprazzi post-romantici, un decadentismo alla Schiele che piace molto anche a me. Insomma, è stata una collaborazione vera, anche se a lunga distanza: lui ha seguito tutte le fasi della composizione, entrando con competenza nel rapporto tra film e musica. Ho scritto la colonna sonora tra Londra, Milano e San Francisco, in un periodo in cui avevo continui impegni in giro per il mondo, e dunque abbiamo lavorato molto al telefono. Ma ha funzionato bene, ci siamo intesi alla perfezione: io inviavo delle registrazioni, lui mi diceva che cosa ne pensava e mi spiegava cosa si aspettava da me. E poi potevo chiamarlo a qualsiasi ora del giorno, a seconda del fuso orario in cui mi trovavo».
Sono nati così tre temi principali, che ricorrono, in versioni leggermente diverse, durante tutto il film. Uno, quello che Gualazzi identifica con il numero uno, è parente stretto di Tanto ci sei, la canzone che lui portò a Sanremo in coppia con The Bloody Beetroots (nome d’arte di Simone Cogo, alias Bob Cornelius Rifo) e che venne eliminata la prima sera dalla giuria popolare (l’altra, Liberi o no, passò la selezione fino al secondo posto finale): «Non è una rilettura di quel brano - spiega Gualazzi - diciamo che l’una e l’altra sono nate insieme come gemelle. Questa è in inglese, con un testo scritto con Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, con la collaborazione di The Bloody Beetroots e la voce più tirata, definita di Erica Mou che dialoga con la mia, più intima, un po’ più scura».
Il che - ci sembra di capire - è uno dei modi in cui la colonna sonora rispecchia il racconto cinematografico, che Gualazzi ha letto sulla sceneggiatura: «Ed è stato bellissimo, in pratica ho girato il film nella mia mente ed è stato ancora più divertente vederne poi la prima versione, un po’ grezza, mi ci sono ritrovato completamente».
Gualazzi, che racconta di essere cresciuto con la musica classica, il rock Anni 70, il be-bop, gli AC/DC, i Metallica, a volte anche disco music e techno, e che - dice - «non ha mai rifiutato alcun tipo di ascolto», considera chiusa, almeno per il momento, la collaborazione con The Bloody Beetroots: «Sono sempre in giro per il mondo, lui ancora di più, incontrarsi è diventato quasi impossibile. Ma di collaborazioni ne farò ancora, sono il sale del mestiere».
L’ultimo concerto italiano a Montecatini, il 20 settembre, poi alcuni concerti in Germania: prima, durante e dopo, «la finalizzazione delle composizioni del nuovo album, che vorrei far uscire abbastanza presto nel 2015. Dentro, ci saranno tutte le esperienze bellissime di questa estate e l’idea di musica che mi caratterizza: ricercare, sperimentare, rimanendo coerente con le mie origini musicali».
Piero Negri, La Stampa 16/9/2014