Alessia Cruciani, SportWeek 6/9/2014, 6 settembre 2014
HO FATTO BENE I MIEI CALCOLI
[Daniele Meucci]
Laureato con 110 e lode in ingegneria. Sta sempre insieme a Giada, il suo primo amore (conosciuta a 17 anni). In barba alle più scoraggianti statistiche Istat, a 28 anni ha già messo al mondo due bambini, bellissimi. Vive in una villetta con giardino e due cani, un maschio e una femmina. Metodico, puntiglioso, rigoroso, mai contento (così lo descrive chi lo conosce bene), non fuma («solo una sigaretta anni fa per curiosità») e sta preparando un dottorato in robotica (si sta specializzando in quel genere di robot marini che hanno disincagliato la Concordia al Giglio). Dulcis in fundo, agli ultimi Europei e alla prima maratona come atleta della Nazionale (in precedenza ne aveva fatte solo due da privato) ha vinto la medaglia d’oro. Daniele Meucci, ci racconti qualcosa che ha fatto di “sconveniente” altrimenti lei è ufficialmente peggio del Furio di Carlo Verdone. Mr perfettino. Insopportabile!
(allarga le braccia ridendo) «Sono stato bocciato per tre volte allo stesso esame, Gestione aziendale. Tutto da imparare a memoria, non lo sopportavo. Era l’ultimo che mi mancava per finire il triennio di ingegneria informatica e passare alla specializzazione in automazione. Anche nell’atletica ci sono stati ritiri, sconfitte. Ad aprile volevo mollare tutto. È successo dopo il 24° posto ai Mondiali di mezza maratona a Copenaghen. Ho litigato con Massimo Magnani, il mio allenatore».
Così è più umano. All’università che le dicono?
«Sono contenti. Soprattutto il professor Andrea Caiti: è stato il mio relatore per la tesi ed è con lui che sto facendo il dottorato. Però mi ha ingannato! Con la laurea avrei anche smesso di studiare, invece mi ha convinto a continuare con un accordo che mi avrebbe permesso di fare atletica. Il problema è che non mi mette mai pressione, non mi fissa scadenze».
Dopo un passato da fondista, con un argento e un bronzo europei nei 10.000, quando ha deciso che si voleva laureare anche in maratona?
«Il giorno dopo la mia gara ai Mondiali dell’anno scorso a Mosca. Nei 10.000, sono rimasto in gara fino all’ultimo km. Potevo finire 5° o 6°, invece ho chiuso 19°. Gli africani, negli ultimi 400 metri, hanno un finale da 52-53 secondi mentre io non riesco ad andare sotto i 56-57. Sono quei 3-4 secondi che ti fanno passare da vincitore a uno qualunque. La maratona non è solo gambe, serve anche la testa. Mentre gli africani sono più istintivi. È stato un salto nel buio».
Aveva corso solo due maratone. Roma 2010 e New York 2013.
«Quella di Roma non la calcolo nemmeno, non l’avevo preparata. Invece, sapevo che New York sarebbe stata una prova vera, più simile a quelle istituzionali di Europei, Mondiali e Olimpiadi perché è l’unica dove non accettano lepri (cioè i keniani che, per aiutare un collega alla ricerca del record, fanno il ritmo fino al 30-35° km, poi è gara vera). Ho chiuso 10°, con buone sensazioni».
Quante maratone si possono correre in un anno?
«Due, massimo tre se sei proprio un maratoneta. Mi sono preparato correndo una media di 170-180 km a settimana. C’è anche chi ne fa 200-220».
Ingegnere, faccia una cronaca “passionale” dei 42 km di Zurigo.
«All’inizio ero molto teso. Nei primi 15 km non mi sentivo nemmeno bene, forse stavo correndo sotto ritmo. Ma la gara vera è dal 30°, quindi ho cercato di aspettare, ripensando anche al consiglio di Massimo di stare tranquillo “perché la maratona è pazienza” ma poi, quando avrei deciso di attaccare, farlo convinto. Verso il 31° c’era il polacco Marcin Chabowski al comando che aveva preso troppo vantaggio, circa 1’20”, allora son partito, altrimenti non si recupera più. Però nessuno mi veniva dietro. A quel punto ho pensato: “Il polacco è lontano, gli altri sono staccati, va a finire che prendo una medaglia, bello!”. Ci avrei messo la firma per un secondo posto».
Previsione sbagliata...
«Arrivato all’altezza del traguardo, c’era una specie di giro di boa e chi sta avanti torna indietro, ci si incrocia. Eravamo al 32° km. Ho prima notato che Chabowski non era così lontano, poi l’ho guardato: era morto! Ho detto: “Con questa faccia sconvolta non ci arriva in fondo e io non mi accontento più del secondo posto”. L’ho raggiunto e superato in poco tempo e ho pensato che, se non mi fosse successo nulla nell’ultima salita, sarebbe stata una buona giornata. Ma dal 37° al 40° sono andato un po’ in crisi. E sapevo di essere primo ma non capivo quanto distacco avessi sugli inseguitori. Quando l’ho chiesto a Massimo, mi ha risposto: “Continua, continua”, ma non me l’ha detto! Così andavo avanti con un’ansia pazzesca. Non sapevo se avrei dovuto rallentare, se potevo recuperare e riprendere fiato. Ma al 40° ero sicuro che ormai non mi avrebbero più preso. E in quel passaggio, per non sentire la fatica, ho pensato tanto a Giada e ai bimbi, alle loro faccette a cui non importa nulla».
Facevano male le gambe?
«Non c’è dolore perché non le senti proprio più, vanno per inerzia».
I robot danno le stesse emozioni?
«Ni. Sono soddisfazioni diverse. Mi piace anche quando si riesce a far funzionare un algoritmo. È bello far funzionare qualcosa che si è immaginato».
Magnani ha precisato che Zurigo era solo il primo passo di un progetto che si concluderà a Rio 2016. Sta facendo i suoi calcoli per diventare l’erede di Gelindo Bordin e Stefano Baldini?
«Ha una bella spinta questo primo passo! Quando stavo per fare il contratto con Diadora due anni fa, Gelindo (direttore marketing performance del marchio; ndr) mi ha detto: “Te lo faccio firmare solo se mi garantisci che farai la maratona ai Giochi del 2016”. Abbiamo lo stesso numero di piede e mi prova tutte le scarpe prima di mandarmele. Quelle con cui ho vinto la maratona le aveva prima usate lui, me le ha anche modificate!».
Prima dell’atletica ci ha provato come calciatore, gran tifoso del Pisa.
«Sempre e solo Pisa! Avevo tanti polmoni ma piedi poco buoni. Ero ala sinistra. Avrei voluto giocare a pallone. Però adesso non più. Il calcio è una soddisfazione sempre di squadra. Qui sei tu, il cronometro, le tue gambe, la tua testa: la fortuna dipende da te».
Mario Balotelli ci sta riprovando lontano dall’Italia.
«Secondo me il calcio è il male italiano. Nel nostro Paese fa più notizia Balotelli che si sposa di un atleta che vince l’oro agli Europei di atletica. Un cugino mi ha fatto notare che su Facebook aveva più visite un’amichevole di non so che squadra che la mia vittoria. Su un commento ho letto: “Se ai Mondiali avessimo avuto 11 Nibali o 11 Meucci, forse non saremmo usciti subito”».
Si parla tanto di cervelli in fuga. Lei in fuga ci va sulla strada...
«Ci abbiamo pensato. Finché faccio atletica voglio rimanere in Italia ma ci piacerebbe andare in America. Hanno tutto e per gli atleti è un altro mondo. Ho provato il tapis roulant in acqua. Hanno attrezzature che qui sembrano fantascienza. Aiuti importanti».
Ai ragazzi che sognano di diventare campioni si consiglia sempre di pensare più allo studio. Lei invece è un paradosso, perché deve fare sport per forza per poter studiare.
«Grazie all’Esercito, che mi ha fatto entrare nel gruppo sportivo: sono caporal maggiore scelto. Praticamente uso l’atletica per percepire uno stipendio e poter continuare a studiare. In America invece i college sono strutturati in modo tale da andare incontro alle esigenze degli atleti. Hai più appelli per poter sostenere gli esami. In Italia, se provo a chiedere di spostare l’esame perché devo andare all’Olimpiade, mi rispondono di non perdere tempo a correre. Ma lo sport è cultura, ti insegna il senso del dovere, del sacrificio, la disciplina».
Come cambia la vita una medaglia d’oro?
«Appena tornati da Zurigo, non avevamo nulla da mangiare in casa. Allora sono andato alla Coop a comprare qualcosa mentre Giada teneva i bambini. Appena varco la porta mi ferma una persona, poco dopo un’altra. Dopo un’ora in cui non ero riuscito a superare il primo scaffale, ho rimesso a posto le poche cose che avevo preso e sono tornato a casa a mani vuote».
Daniele, un’ultima domanda: non è che rosica perché non è lei il Meucci che ha inventato il telefono?
«No, ma mi piacerebbe se nella storia si parlasse di un altro Meucci». Poi aggiunge: «Comunque ho letto la storia, forse non è stato nemmeno lui a inventarlo. Scherzo!!!!».