Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  settembre 13 Sabato calendario

ARRENDIAMOCI ANCHE QUESTO È SPORT


Peter Dager non ha il fisico né il conto in banca (non ancora, almeno) di LeBronJames, il miglior giocatore della Nba, però nel suo mondo è un campione famoso e adulato da un cospicuo numero di follower su Twitter. Ammette spiritosamente che i soli muscoli che tiene allenati sono quelli delle dita e del cervello. Non è solo una battuta, perché per abbattere nemici virtuali su uno schermo alla velocità della luce non servono certo i fisici scolpiti dei giocatori di football o basket.
Chi pensava che i videogame fossero solo divertimento o al massimo associava a questa passione un pazzesco giro d’affari (in effetti è così: è un’industria che incassa 20 miliardi di dollari più di quella musicale e adesso ha nel mirino quella cinematografica), sappia che c’è dell’altro: in giro per il mondo vengono organizzati megatornei dentro stipati palazzetti del basket e stadi del calcio, come ha raccontato anche il New York Times in un recente articolo sparato in prima pagina.
A luglio. The International, una specie di Champions League di Dota 2 (gioco strategico a squadre in tempo reale con ambientazione fantasy), ha riempito la Key Arena di Seattle con 11 mila spettatori. Tutti ansiosi di spellarsi le mani e incitare come ultrà alcuni ragazzetti come loro, generalmente compresi fra i 18 e i 30 anni: i fuoriclasse di questo passatempo da computer, trasformato ora in una vera professione. Squadre con nomi tipo Alliance (vincitori l’anno passato), Evil Geniuses, Fnatic, composte da cinque giocatori sponsorizzati da marchi internazionali che dentro a cabine, isolate acusticamente dalla platea, si battono per diventare i numeri 1 indiscussi di quel videogioco. Un titolo non solo simbolico, perché ora in ballo ci sono ricchi montepremi. Nel caso di Seattle, la cifra era da capogiro e costituiva un record assoluto: 11 milioni di dollari.
Questi tornei sono sempre più frequenti, con la Corea del Sud Paese trainante di un movimento di giovanotti che, magari sacrificando la scuola pur di affinare le loro abilità nel battere gli avversari virtuali, sono diventati fior di professionisti: i cinesi del team Newbee, vincitori di The International, si sono messi in tasca 5 milioni di dollari, uno a testa. A Seul c’è addirittura un canale televisivo dedicato e l’ultima manifestazione svoltasi dentro a uno stadio esaurito da 40 mila posti ha fatto registrare un primato di 8,5 milioni di contatti contemporanei in streaming in tutto il pianeta. E Amazon ha da poco acquisito per quasi un miliardo di dollari la piattaforma Twich, una sorta di YouTube dedicato agli e-sport. Cifre che avviliscono sport come l’hockey della Nhl e iniziano a intrigare gli sponsor. Coca-Cola e American Express, per esempio, si sono già buttate su quella che ritengono sia una potenziale e inaspettata nuova sorgente di clienti.
Ormai questa disciplina viene definita e-sport e le varie leghe che si stanno formando hanno nomi simili a quelle dei grandi sport Usa, come Major League Gaming o Electronic Sports League, che invitano a iscriverti nel loro sito per catapultarti istantaneamente nel mondo dei giocatori professionisti. Perché il fenomeno si sta espandendo con la rapidità con cui devi saper azionare i comandi di un videogame. È una mania contagiosa che segue le regole di qualsiasi altro business: più persone comprano videogame e si dimostrano interessate a queste olimpiadi virtuali, più soldi vengono investiti, più ragazzi sono disposti a tutto pur di afferrare al volo questa redditizia opportunità.
Per intendersi, uno come Peter Dager quest’anno metterà in tasca centinaia di migliaia di dollari (200 mila solo per questo torneo, in cui è arrivato terzo), girando il mondo per i tornei e allenandosi nella sua stanzetta di Fort Wayne, Indiana, dove abita con i genitori. L’attrezzatura non è un investimento da poco: un computer da pro gamer costa diverse migliaia di dollari tra processori, schede, monitor e connessioni al Web ad altissime prestazioni. Ma soprattutto servono lunghi ed estenuanti allenamenti. Perché come i colleghi più famosi di basket o football, il videogiocatore a tempo pieno è costretto a trascorrere decine di ore alla settimana davanti allo schermo. Non esattamente una tortura, ma Dager confessa: «La notte sogno spesso quei personaggi e penso di essere diventato uno di loro». E alcuni dei suoi post cinguettati su Twitter sembrano quelli lamentosi di un qualunque calciatore: «Se penso a tutti i soldi che devo pagare al fisco, mi sento male», oppure «che motivazione avrò alla prossima competizione se gli organizzatori non ci hanno ancora pagato il premio di quella precedente?». E poi c’è la frase emblematica con cui si è sfogato con il New York Times: «Io e altri compagni abbiamo sacrificato tutto: per poter giocare di più, ho mollato gli amici e la scuola».
L’idea sempre più diffusa di paragonare l’e-sport a quello vero praticato su parquet e campi in erba ha spinto Espn2, uno dei canali interamente dedicati allo sport, a trasmettere a luglio un servizio sul torneo di Dota 2. Un’iniziativa che ha provocato in rete una specie di rivolta popolare, con un’ondata di insulti e giudizi negativi. Ma uno dei responsabili di Esl non si è scomposto: «Se non volete chiamare atleti i nostri giocatori non ha importanza. Nessuno può negare la realtà: il nostro è un movimento in crescita esponenziale».