Luigi Garlando, SportWeek 13/9/2014, 13 settembre 2014
LA MEMORIA CORTA DI UN POETA DEL CALCIO
Michel Platini smise di giocare nel 1987, a 32 anni. Solamente un anno prima, era stato splendido protagonista del Mondiale messicano: un gol all’Italia negli ottavi, un altro nei quarti per agguantare il Brasile e per trascinare la Francia alla fortunata girandola dei rigori. Eppure, un anno dopo tanta gloria, a soli tre anni da un titolo europeo vinto praticamente da solo, decideva di abbandonare il calcio. Non sopportava più i problemi alle caviglie e, soprattutto, l’idea di arretrare tatticamente per prolungarsi la carriera, come facevano tanti. Le Roi Michel voleva lasciare di sé il ricordo migliore, voleva smarcarsi dai molti colleghi che nell’accanita guerra contro il tempo si erano trascinati in campo corrompendo nel finale una carriera di valore. Platini, al contrario, ha sublimato la sua parabola calcistica con un’uscita di scena da vero artista, al momento giusto, nel modo giusto. Di lui ricordiamo infatti solo cose belle. L’intelligenza che caratterizzava le sue giocate gli ha suggerito il momento più opportuno per varcare la linea di gesso. Eppure sembra avere dimenticato tutto questo. Ora che il connazionale Franck Ribéry, dopo un Mondiale di soddisfazioni, ha programmato un’analoga, elegante, uscita di scena, Platini non capisce e minaccia: «Se non giochi in Nazionale, sarai squalificato nel tuo club». Ribéry ha passato i 30, come Michel quando si ritirò, e ha giocato in Nazionale più partite di lui: 81 a 72. Ribéry ha spiegato che vuole passare più tempo in famiglia e che ritiene giusto lasciare campo ai giovani. Platini ha dimenticato che nell’87 si ritirò mollando la Francia in mezzo al guado delle qualificazioni a un Europeo che non raggiunse. Ora ha cuore di politico, pensa soltanto a Euro ’16, al “suo” Europeo, al suo business, e pretende in gara la Francia migliore perché già sogna di premiarla a Parigi, come al Mondiale del ’98. Perciò guarda a Ribéry come a un disertore che si rifiuta di combattere al servizio della Patria. Avesse conservato nel petto il cuore di poeta che aveva quando giocava, si renderebbe conto invece dell’opportunità dei tanti addii eleganti che hanno caratterizzato questa estate post-Mondiale: Xabi Alonso, Lampard, Klose...
In un calcio sempre più mercificato, la maglia della nazionale è forse l’ultima riserva di sentimento puro. È giusto indossarla solo fino a quando dura la passione, la voglia, il sacro fuoco, non un minuto in più. La maglia del club che versa lo stipendio è un’altra cosa: è una tuta da lavoro. Ci si può trascinare fino a tarda età nei campionati degli emiri o degli indiani, fastosi cimiteri di elefanti, ma non con la maglia della nazionale addosso, in rappresentanza di un popolo.
Se Platini avrà un rigurgito di poesia, capirà che Ribéry ha ragione e lo lascerà in pace.