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 2014  settembre 16 Martedì calendario

ROMANZO VEGETALE CARICA PAPAYA VANDA ROTHSCHILDIANA EUPHORBIA SPLENDENS LITHOPS [4

pezzi] –

La sfida è più che importante, anzi storica per dirla con le parole del rettore. Il passato conta molto nel nuovo Giardino della biodiversità che ha inaugurato ieri all’interno dell’orto botanico di Padova. Non solo perché sullo sfondo si staglia la seicentesca Basilica di Santa Giustina. Ma anche perché tramite le piante, motore primigenio della vita sul pianeta Terra, si prolunga quella dello stesso millenario orto universitario, che ha fatto da apripista per quelli di tutto il Vecchio continente. «La scommessa era continuare a far vivere l’orto con una nuova realizzazione che consentisse si ampliare la superficie disponibile per i vegetali e di offrire ai visitatori una struttura di tipo europeo – spiega Giuseppe Zaccaria, rettore dell’ateneo padovano - confido che ci sarà una grande risposta nazionale e internazionale di pubblico, perché oggi c’è un potente polmone verde nel cuore di Padova, che interpreta un sentimento del tempo, cioè la tutela della biodiversità».
Il Giardino della biodiversità ha quindi il compito di lanciare un ponte dal futuro a quell’appezzamento scientifico di arbusti e fiori nato nel 1545, dal 1997 patrimonio Unesco. E lo fa con una struttura trasparente che riassume la biosfera in cinque serre. Il progetto architettonico è dell’architetto Giorgio Strappazzon e arriva a completamento dopo cinque anni. Un edificio costruito secondo i crismi del «solar active building»: risparmio energetico, riuso di acqua piovana e sfruttamento dell’energia solare. Ad accompagnarne l’apertura è la mostra «Alles ist Blatt (Tutto è foglia)» di Giovanni Frangi (fino al 15 gennaio), lo spettacolo di Gabriele Lavia su Leopardi (domani) e il concerto di Mario Brunello (venerdì).
Accolto dal calco di una palma fossile e da un video a parete che mostrerà cosa lo attende, il visitatore si preparerà a viaggiare per il mondo attraversando cinque serre che racchiudono ciascuna un bioma, ovvero una fetta di biosfera caratterizzata dalla sua tipica vegetazione: tropicale, tropicale subumido, temperato, mediterraneo, arido-desertico. In tutto 1.300 specie protette da 100 metri di tetto spiovente coperto con dei cuscini di Etilene TetrafluoroEtilene, un materiale coibentante usato anche dalla Nasa. «Avevamo moltissimi vegetali, ma vivevano in condizioni anguste - spiega Giorgio Casadoro, professore e prefetto del Giardino —. Abbiamo dunque pensato a una struttura totalmente diversa dall’orto tradizionale, cercando anche un compromesso».
Proprio la zona tropicale, quella più ampia, è attraversata da un vialetto che rappresenta idealmente l’Equatore, da una parte l’emisfero settentrionale, dall’altra quello meridionale.
Qui le orchidee dividono lo spazio con le Bromeliacee che vivono sugli alberi, tra il verde spunta il Frangipani usato dalle hawaiane per adornare i loro capelli, mentre la pianta di Cola, con i semi ricchi di caffeina, cresce non lontano da quella del pepe e del mango. E tra le felci spunta il Catharantus roseus, da cui si estraggono i principi attivi di alcuni antitumorali. Nella zona tropicale subumida, che alterna piogge violente a stagioni secche, si trova la piante del caffè (Coffea arabica) e poi una grande vasca con la vegetazione acquatica: le mangrovie, il loto, il papiro e la Victoria cruziana con le sue foglie rotonde e ripiegate a pelo d’acqua. Nell’acqua vivono anche rane e pesciolini.
Nella parte temperata si ritrovano felci australiane e la Macadamia, le cui noci altamente proteiche sono usate in pasticceria e in cosmesi. Il bioma mediterraneo si compone invece di due parti: quello delle nostre coste, con carrubi, chinotti, limoni, pistacchi, bergamotti, viti e alberi da sughero; e quello che si ritrova in altre parti del mondo, con piante dell’incenso e dell’hennè. A chiudere la visita l’area arido-desertica: «La parte del deserto americano si riconosce per le varietà di Opuntie, i cosiddetti fichi d’India, per i cactus, e per l’agave da cui si fa la tequila; quella africana da piante come l’Aloe, il Lithops, che sembra un sasso e la Welwitschia mirabilis, che abbiamo solo noi e l’orto botanico di Napoli. È una pianta centenaria, che viene dal deserto del Kalahari, con due sole foglie che per tutta la vita continuano a crescere dalla base, mentre alle estremità si seccano». La visita è accompagnata dal percorso «Le piante e l’uomo», curato dal filosofo Telmo Pievani: video 3d ed exhibit illustreranno il legame indissolubile flora-umanità.
Andrea Rinaldi

UNA PASSEGGIATA CHE MI FA EVAPORARE LA NOSTALGIA DELLA PRIMA VISITA –

Era da un po’ che mi ripromettevo di tornare al vecchio orto botanico, tra i più antichi del mondo, dov’ero stato solo una volta da ragazzino. Ricordo il crepitare del ghiaino sotto le scarpe nel silenzio, c’erano pochi visitatori, forse per l’afa tipica dell’estate padovana. Ricordo la felicità nell’incontrare piante delle quali avevo solo letto e vedere che crescevano così bene anche all’aperto là vicino casa, come l’Hydrangea aspera «Macrophylla», ospiti famose come la palma che tanto colpì Goethe e il toccasana della frescura nel boschetto perimetrale… Svaporata l’eccitazione del primo momento torna in mente anche una certa delusione per le dimensioni modeste, non tanto rispetto ai Kew Gardens di Londra nei quali m’ero perso l’anno prima ma al vicino Prato della Valle; per la tristezza delle aiuoline geometriche bordate in cemento, perfette per far imparare le officinali a studenti cinquecenteschi ma meno per compiacere l’occhio moderno; e le immancabili Parietaria che in uno spazio limitato e piatto urtavano assai più che in giardini con più respiro, come quello di Napoli. Ecco, oggi è tutto cambiato.
Dopo un veloce saluto alla palma di Goethe (mai dimenticarsi di salutare le vecchie signore) e attraversato l’Ortus Sphaericus passiamo per il boschetto. Ai nostri lati il suolo si alza e ci troviamo in un taglio nel terreno, quasi in asse con le cupole di Santa Giustina. Usciti c’è un cambiamento drammatico: all’affollato rigore rinascimentale e alla volta degli alberi segue uno spazio aperto, pulito, con prati tagliati da un elegante sentiero stampato, specchi d’acqua, e sulla sinistra una lunga serra che aumenta la prospettiva con la linea superiore degradante verso il fondo. Il lontano brusio del traffico cittadino è quasi coperto da tre cascate che escono dalla facciata della serra, oltre ad essere belle ossigenano l’acqua vitale per l’Orto. Entrati nelle serre inizia il divertimento. Invece che collezioni monotematiche tipiche di vecchie istituzioni (qui felci, lì orchidee) troviamo alcuni esempi di biomi: zone desertiche, foreste tropicali subumide e la savana, foreste pluviali tropicali, zone temperate e mediterranee. Certo, a così breve tempo dall’impianto forse partono avvantaggiate le parti desertiche, ma a breve nelle serre tropicali sul passaggio sopraelevato non guarderemo più dall’alto a giovani piante, ma cammineremo tra le loro chiome, e già ora c’è l’emozione di ammirare qua una mangrovia, là i bei frutti gialli della pianta del cacao. Il piacere botanico ed estetico sono poi nutriti da tutta una serie di accorgimenti tecnologici proprie delle migliori istituzioni moderne. Un orto botanico non più solo per esperti nostalgici, ma per appassionati e per chiunque voglia concedersi una bella passeggiata.
Carlo Contesso

E LA PALMA DI SAN PIETRO INSEGNÒ LA VITA A GOETHE –

È il settembre del 1786, Johann Wolfgang von Goethe ha trentasette anni. Come ogni uomo, è già stato tanti uomini diversi. È stato avvocato e precettore, ha frequentato i tribunali e, con più trasporto, le taverne e le sale da concerto. Ha studiato lingue, dal greco all’italiano, ma non ha trascurato l’equitazione e la scherma. Si è applicato al disegno, ma anche a geologia e anatomia, botanica e mineralogia. Ha attraversato un periodo infernale, coliche e sangue in bocca, in cui ha temuto di morire presto. Ha bruciato quasi tutta la sua produzione letteraria giovanile, ma ha scritto già il suo best-seller, il Werther , che poi è la storia di una Charlotte vera che non ci stava con lui, di un suo amore aspro, giovanile, di quelli che sono tutto. Ha conosciuto la fama, ma anche l’angoscia dei ragazzi che si suicidavano imitando il protagonista del suo libro, tenendo quel libro in tasca.
In quel giorno di settembre del 1786, all’inizio del suo viaggio in Italia, Goethe si trova dentro l’Orto Botanico dell’Università di Padova. E vede la stessa pianta che vedo io adesso, la palma di San Pietro. Dopo la dipartita di un agnocasto, nel 1984, è la pianta più antica dell’Orto. Risale almeno al 1585, è cresciuta in questi secoli, continua a crescere, a salire, ma il tronco originario, la ceppaia, è lo stesso. Goethe ne osserva le foglie; quelle più giovani, di sotto, sono tutte intere, poi con l’età cominciano a spezzarsi, a diramarsi, a venire come ciuffi sottili. Goethe ne resta affascinato. Le foglie, nella loro vita, cambiano forma, fino a sembrare di piante diverse. Goethe pubblica, nel 1790, una teoria su La metamorfosi delle piante : sostiene che gli organismi crescono attraversando fasi che li modificano completamente.
Al di là del rigore scientifico della tesi, al di là della meraviglia e ambizione di quest’uomo universale in un’epoca in cui si poteva ancora esserlo, e scrivere copioni di teatro e trattati sulla natura, c’è qualcosa di più. Forse, l’evocazione che crescere, in fondo, significa perdere occasioni, fare solo una delle cose che si potevano fare. È facile dire che c’è tutto Goethe, qui; il Werther , in fondo, è una foglia intera, mentre il Faust o Le Affinità Elettive , scritti dopo aver visto questa palma, sono foglie più irregolari. È che le piante fanno sempre riflettere sulla vita, anche quelle che teniamo sul balcone, che ci sorprendono a crescere. A maggior ragione, la vita dilaga qui, nell’Orto, in questo tripudio di specie diverse, dal caffè alla polmonaria curativa, dalla ruta che profuma al fiore di loto che cresce velocissimo. Quanti altri hanno paragonato la loro esistenza a questa palma? Quanti si sono sentiti piccoli, rispetto ai cipressi calvi, ma comunque protetti dagli alberi? Quanti, invece, hanno rivisto qualche conoscente nelle piante insettivore, quelle ad aspirazione, che succhiano la preda, quelle adesive, che la incollano senza muoversi o far nulla, o quelle a scatto, che invece ti sorprendono e ingoiano? Certo, è sorprendente accorgersi di tutte le specie importate, arrivate in Italia tramite Padova: le patate e i gelsomini, il sesamo e i fagioli, i girasoli e le agavi. È che anche noi piantiamo semi dove mai avremmo pensato o abbiamo radici che qualcuno ci ha portato.
Io credo che per chiunque sia una sorpresa venire qui, anche solo guardare tutti questi colori, domandarsi perché esistono tante piante diverse. L’Orto Botanico di Padova, in fondo, continua a crescere come una pianta tra le altre. La ceppaia dell’Orto è sempre la stessa, è il più antico del mondo che è rimasto fermo nel luogo della fondazione. È qui dal 1545, voluto dall’Università di Padova e dalla Repubblica di Venezia per i suoi studenti. Lo scopo primo era semplice: reperire le erbe medicinali, riconoscerle tra le altre, evitare di sbagliarsi, di avvelenare i pazienti. Nel 1552, il corpo centrale, geometrico, quasi mistico, un quadrato racchiuso da un cerchio, viene murato per evitare che di notte si rubino le piante. Poi, però, l’Orto continua a crescere, non c’è modo di fermarlo. E mentre le specie nel mondo diminuiscono, qui non si smette di importarle, lavorare, studiare, e desiderare che continuino. Ormai, l’Orto si spinge fino alle nuove serre, bianche, piene di luce trasparente, con intorno un prato verdissimo e delle vasche larghe, quiete.
L’Orto è sempre nel cuore di Padova, vicino alla grandezza dolce di Prato della Valle; da una parte si vedono le cupole di S. Antonio, vezzose, quasi arabe, invisibili così se non da qui, e dall’altra quelle di S. Giustina, svettanti, bianche, più robuste. Forse, un giorno, l’Orto le supererà.
Giovanni Montanaro

NELLA VIA DEI VIVAI, DOVE SI STA RIPENSANDO IL CONCETTO DI VERDE –

Non è un caso che il nuovo Giardino della biodiversità sia sorto proprio a Padova. Nella sua provincia infatti si concentra quello che si può considerare a tutti gli effetti un distretto del florovivaismo, ovvero l’area che lungo la statale 516 (chiamata appunto via dei vivai) arriva fino a Piove di Sacco, lambendo le terre veneziane.
Anche se in sofferenza, il comparto florovivaistico vanta buoni numeri in terra veneta: sono 1.600 le aziende del settore attive nel 2013, per quanto si registri un calo del 1,3% rispetto al 2012 (fonte Veneto Agricoltura). Quasi il 90% delle ditte è impegnato nel vivaismo ornamentale e, a livello territoriale, è proprio Padova a confermare la leadership con circa il 30% delle imprese regionali.
Centro, in tutti i sensi, della via dei vivai è il comune di Saonara, la cui vocazione alla botanica risale al 1820, quando l’agronomo Angelo Sgaravatti trasformò la sua passione per le piante in un impero familiare in grado di dare lavoro a parecchie persone. Le quali, una volta appreso il mestiere, si misero ad aprire il loro vivaio. Solo a Saonara l’anno scorso se ne contavano ben 68.
«Da anni l’individualismo di queste aziende ha impedito di fare sistema — ammette Elisabetta Maso, consigliere con delega al vivaismo del Comune — così abbiamo partecipato al bando europeo App4Inno e lo abbiamo vinto. Il nostro progetto prevede il coinvolgimento di alcuni vivai affinché possano creare un marchio comune e un portale per commerciare all’estero, organizzandosi e guadagnando quella visibilità che loro manca».
Percorrendo la statale 516 si incontrano comunque giardinieri che hanno sì il pollice verde, ma anche il senso degli affari. Basta entrare al vivaio La Fiorita di Jacopo Giraldo: nato nel ‘97 come semplice rivenditore di piante e fiori e poi manutentore di giardini, negli ultimi anni, complice la crisi, si è reinventato. «Con l’edilizia che segnava il passo, la progettazione del verde diventava sempre più difficile, allora ho ripensato il business», constata il vivaista. Oggi il suo esercizio segue passo passo il cliente nella coltivazione, un vero e proprio tutoraggio che va avanti per settimane grazie ad aiuti e fotografie inviati per e-mail. «Forniamo sì le piante, ma anche le nostre competenze. Le persone ci espongono il loro problema, facciamo un sopralluogo, consigliamo diserbi, procuriamo materiali e le assistiamo nella semina». Da marzo nel garden è stato inserito un reparto food di Campagna amica che vende prodotti di contadini limitrofi, gli ortaggi però vengono dai campi di Giraldo dietro al vivaio. «La prossima mossa sarà coinvolgere il cliente nella raccolta. Arriva qui, entra nel campo, coglie la verdura, torna, se la pesa e paga».
Anche Denis Lirussi ha coltivazioni che confinano con la via dei vivai. La sua azienda però è famosa per le piante da frutto, che esporta in tutta Europa, in particolare per dei peschi nani di cui ha l’esclusiva per l’Italia grazie al licenziatario francese Darnaud, che li ottiene dalla californiana Zeiger genetics. «Le piante che crescono fino a 6 metri non si vendono più — ammette Lirussi — quindi ho pensato di dare l’opportunità a chi vive in posti angusti di avere frutta fatta in casa. È stata una scelta valida: ho cominciato 2 anni fa e da 5.000 peschi son passato a venderne 17.000».
A. Rin.