Gilberto Oneto, Libero 16/9/2014, 16 settembre 2014
LA PADANIA? TROPPO RICCA PER ESSERE LIBERA
Il principio di autodeterminazione è universale e vale (o dovrebbe valere) per tutti. La richiesta di applicazione può avere modalità diverse: unione, diversi gradi di autonomia o indipendenza. Le vere differenze non derivano tanto dal livello di libertà cui si aspira ma dall’atteggiamento di chi lo dovrebbe concedere. Negli ultimi anni sono tantissimi i casi di richiesta di referendum per decidere la separazione di una comunità da un’altra e la gamma di risposte degli «Stati madre» è davvero variegata. Ci sono chiusure totali (la Turchia con i curdi), ci sono chiusure motivate giuridicamente: di solito ci si appella a Costituzioni che negano separazioni o concessioni di troppa autonomia. È il caso di alcuni grandi Paesi occidentali che si nascondono dietro l’indivisibilità sancita dalle loro Carte fondamentali per negare ogni richiesta: con durezza sicura in Francia, con durezza un po’ più timorosa in Spagna e con durezza ipocritamente nascosta da finto possibilismo e da «cavillite» in Italia. Una eccezione a questo tipo di resistenza era la Costituzione dell’Urss che prevedeva all’articolo 17 il diritto di secessione di ogni repubblica federata, e che ha loro permesso alla caduta del comunismo di andarsene liberamente senza nessuna delle misure repressive che minacciano quasi tutte le democrazie: paradossalmente nell’interpretazione del federalismo i sovietici sono stati molto più corretti e liberali degli occidentali.
LIBERI SENZA NORME
In altri casi le separazioni e secessioni sono state possibili proprio per mancanza di norme specifiche in materia: la Norvegia ha lasciato la Svezia, l’Islanda la Danimarca e la Slovacchia la Repubblica Ceca con un tranquillo voto democratico e senza la minaccia di fulmini giuridici o peggio. La Gran Bretagna non ha una Costituzione scritta e l’odierno riconoscimento dei diritti scozzesi discende da una civile applicazione della Common Law, peraltro applicata in passato con minore eleganza nei confronti delle Colonie americane e dell’Irlanda.
La Costituzione jugoslava non contemplava l’autodeterminazione: l’indipendenza delle Repubbliche ha però dovuto essere accettata per la ineluttabilità degli eventi. I successivi conflitti sono scoppiati per la pretesa di intangibilità dei confini: la stessa antistorica pretesa che unita al rifiuto di applicazione locale del diritto di autodeterminazione è all’origine degli attuali drammatici eventi ucraini.
Alle complicanze e alle seriose giustificazioni giuridiche si intrecciano quasi sempre motivazioni economiche. Al di là delle ultime schermaglie propagandistiche, il referendum scozzese non avrà grandi implicazioni sulle tasche dei cittadini: i due Paesi vivono benissimo anche separati e anzi possono sperare entrambi (come è successo a tutti gli altri processi indipendentisti) di trarne generali vantaggi. Diverso è il caso della Catalogna che contribuisce all’economia spagnola in maniera determinante con 17 miliardi di residuo fiscale e ancor di più della Padania che di miliardi alle casse romane ne regala almeno 120 ogni anno. Non è un dettaglio da poco e non può non venire il «sospetto» che dietro a nobili motivazioni di rispetto costituzionale ci siano pulsioni e paure d’altro genere. Questo spiega la differenza fra il signorile distacco formale del governo inglese sul prossimo referendum e le robuste preoccupazioni di Madrid per la vicenda catalana. Ma soprattutto spiega il terrore che Roma ha di qualsiasi spiffero autonomista.