Enrico Tiozzo, Il Messaggero 16/9/2014, 16 settembre 2014
SVEZIA, L’ISOLA CHE NON C’È
IL PAESE
STOCCOLMA
Il responso enigmatico delle urne svedesi è un segno della confusione che sta crescendo tra gli abitanti di un Paese abituato, da almeno 70 anni, a stare alla finestra, lieto del suo ruolo – troppo spesso enfatizzato – di isola felice e di modello di perfetta democrazia. Fra le molte (troppe) esagerazioni sul mito della Svezia, va individuata una verità che scompagina completamente tutte le favole sul suo conto: la Svezia è semplicemente quella che è proprio perché, per lungo tempo, è rimasta un’isola, situata alla periferia dell’Europa, abitata da nemmeno 10 milioni di abitanti su un territorio grande una volta e mezza l’Italia. E che ha evitato due guerre mondiali crescendo, indisturbata, economicamente con i suoi pochi abitanti e la sua impermeabilità agli orpelli e agli improvvisi abbagli del resto del mondo. La Svezia del vero miracolo era quella del re che andava in bicicletta per le strade ma che ha cominciato a sgretolarsi lentamente nel terzo millennio. Oggi – messa di fronte alle grandi sfide comuni dell’Occidente – rischia di non riuscire a difendersi e di andare incontro ad un collasso, di cui i suoi abitanti (vissuti finora sotto una calotta di vetro) sembrano non rendersi ancora pienamente conto.
PASSAGGIO DI CONSEGNE
Da questo punto di vista il passaggio di consegne tra destra e sinistra, non ha, in realtà, alcuna importanza, mentre peraltro già si parla di coalizioni e combinazioni di tutti i tipi. In Svezia gli otto anni, appena trascorsi, di governo conservatore hanno fatto registrare pochissime differenze rispetto ai precedenti governi socialdemocratici, e pochissimo cambierà anche da domani. In questo modo si spiegano la fiacchissima campagna elettorale e il debolissimo dibattito fra i leaders. L’unico vera e grande sfida è in realtà l’atteggiamento da tenere nei confronti dell’immigrazione, unico massiccio fenomeno nuovo che sta cogliendo di sorpresa gli svedesi e che il Paese non sembra in grado di saper gestire. È su questo crinale che si gioca il vero futuro della Svezia. È qui che il giocattolo del tanto strombazzato ‘miracolo svedese’ rischia di rompersi. Economia, ordine pubblico, istruzione, sanità, ecc. sono sempre stati un modello proprio perché adattati a una popolazione esigua, omogenea, diligente, pedissequamente ligia alle autorità. Immettere di colpo nella società svedese (com’è avvenuto nel 2013) 116.000 immigrati, provenienti soprattutto dalla Siria e dalla Somalia, con un aumento di oltre il 15% rispetto al 2012, e continuare di questo passo con 150.000 nuovi arrivi nel 2014, può far crollare il mito costruito in oltre mezzo secolo. Qualcuno comincia a rendersene confusamente conto.
La crescita economica al 12% e il continuo aumento del Pil (salito dell’1,6% dal 2012 al 2013), il reddito medio pro capite odierno di oltre 35.000 euro annui, la disoccupazione al 7% con 5 milioni di persone, tra i 15 e i 74 anni, attive nel lavoro, l’ottima assistenza sanitaria, sono tutti ‘miracoli’ spiegabili con la condizione privilegiata di un Paese ‘protetto’, abituato spesso a fare tutto a modo suo e tutto nel suo piccolo, come una felice oasi di provincia. Gli svedesi si riconoscono da lontano in casa e all’estero, semplici (e quasi ruvidi) nei modi, vestiti sempre informalmente, convinti (forse a ragione) di essere un prescelto popolo a parte, imparentato solo ai danesi e ai norvegesi. Ma i norvegesi hanno trovato l’oro nero e si sono furbamente chiusi nel loro guscio dorato rifiutando UE ed euro. La Svezia invece non ha trovato un bel niente perché gli ambientalisti (sostenuti dai conservatori, ecco perché nulla cambia con le elezioni) si sono opposti alle trivellazioni nel Baltico, dove ci sarebbero in attesa ben 350 milioni di barili di petrolio. Di fronte al fenomeno nuovo dell’immigrazione di massa, sia la destra che la sinistra hanno quindi battuto insieme la gran cassa della tolleranza, dell’accoglienza indiscriminata a tutti, della “Svezia grande potenza umanitaria”, del “fascismo” da battere a tutti i costi e incarnato dalla triade “antisemitismo, antislamismo e omofobia”, con un confuso accorpamento di fenomeni completamente diversi ma in grado di colpire la fantasia e di far scattare l’indignazione dell’87% degli svedesi.
Un 13% della popolazione invece ha puntato sull’unico partito sospettoso nei confronti della capacità svedese di gestire una situazione internazionale completamente nuova, demonizzato e presentato però, da destra e da sinistra, come “nazista e razzista” in quanto vorrebbe limitare l’immigrazione. Non è un partito particolarmente brillante, ma l’emarginazione “a priori” di cui è oggetto testimonia in realtà un atteggiamento chiuso e proprio di una nazione che, ancora una volta, crede di avere in mano tutte le risposte giuste mentre, nello stesso tempo, spera nel miracolo di riuscire a mantenere il suo benessere e la sua posizione privilegiata in un Occidente ad alto rischio. È un’equazione che difficilmente potrà essere risolta e che potrebbe portare all’autodistruzione del mito svedese.