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 2014  settembre 16 Martedì calendario

SENZA IRAN E TURCHIA UN’ALLEANZA IMPERFETTA

Una mappa pubblicata sul quotidiano Hurriyet mostra sei posti di frontiera turchi con la Siria e l’Iraq: dall’altra parte del confine, circa 1.200 chilometri, sventolano sei o sette bandiere diverse. Sul confine con Damasco sono piantate quella di Assad, dei curdi siriani del partito Pyd e di quelli turchi del Pkk, di due gruppi islamici radicali, tra cui il Califfato di Abu Bakr Baghdadi, mentre su quello iracheno c’è un vessillo dei peshmerga ma non dello stato centrale, che non controlla più nulla da un pezzo, tranne Baghdad e il Sud sciita. Questo sta accadendo sull’orlo del vulcano in eruzione: il limes della Turchia, da oltre mezzo secolo bastione della Nato sul versante orientale, è esploso. Ma l’Alleanza Atlantica non parteciperà ai bombardamenti in Iraq contro lo Stato Islamico e la Turchia ha fatto sapere che si limiterà a dare appoggio soltanto a operazioni umanitarie.
La Turchia per diverse ragioni è uno degli alleati occidentali più riluttanti a dare la caccia ai jihadisti dello Stato Islamico che in questi anni sono passati a frotte dalle sue frontiere con l’intenzione di andare ad abbattere il regime di Bashar Assad, un signore che in un tempo non troppo lontano trascorreva le vacanze con la famiglia Erdogan. Oggi Ankara esita perché ci sono 60 ostaggi turchi in mano all’Isis, dove il 10% è costituito da militanti turchi e teme attentati sul suo territorio che ha accolto oltre un milione di profughi siriani.
Ma naturalmente di questo ieri a Parigi, al vertice per combattere il Califfato in Iraq, non si è parlato. Così come sono state più le cose non dette che quelle rese esplicite. A partire da come si faranno i raid aerei in Siria, roccaforte dell’Isis, fino a individuare chi combatterà davvero sul terreno i jihadisti, perché pensare che bastino i bombardamenti per far fuori la bandiera nera del Califfato è del tutto illusorio.
C’è stato soltanto un timido accenno del presidente iracheno Fouad Masoum che ha chiesto agli stati vicini di sigillare le frontiere e impedire il passaggio ai jihadisti. Mentre François Hollande ha detto una cosa giusta affermando che per eliminare il Califfato occorre disintegrare le sue roccaforti in Siria. Ma ne ha detta anche una sbagliata quando ha sostenuto che il movimento è nato in Siria. In realtà il Califfato ha le sue origini in Iraq, il suo capo è iracheno e l’abilità di Baghdadi è stato proprio quella di unificare i due campi di battaglia, facendo leva sul malcontento delle tribù sunnite su entrambi i fronti. La Francia di Hollande, che l’anno scorso era prontissima a bombardare Assad insieme agli americani, ha un conto aperto con il regime di Damasco e sostiene la tesi, comoda anche alle monarchie sunnite, che a creare il Califfato sia stato proprio il detestato presidente siriano per giustificare la repressione.
Ma Assad non ha bisogno di fabbricare altri mostri per massacrare gli oppositori, ci pensa da solo: la verità è che in Occidente e nel mondo arabo sunnita speravano che i jihadisti, importati da tutto il mondo musulmano, liquidassero il regime. Tanto è vero che la cosiddetta opposizione moderata, citata come un mantra a ogni conferenza mediorientale, non ha raccolto alcuna credibilità o aiuto militare consistente, semplicemente perché è stata sopraffatta assai velocemente dai gruppi più radicali usciti fuori controllo e che in parte si sono poi uniti al Califfato. Abbiamo a che fare con una vecchia storia: rimediare agli errori commessi, come è accaduto in Afghanistan tanti anni fa.
L’altro aspetto rilevante del vertice di Parigi è stato il mancato invito all’Iran e l’assenza, scontata, della Siria. La Guida Suprema Alì Khamenei ha risposto picche alle profferte di collaborazione con gli americani quando ha capito che Teheran non sarebbe stata invitata alla conferenza: gli Stati Uniti continuano a tenere ai margini l’Iran e preferiscono vezzeggiare gli antichi alleati sunniti, come le monarchie del Golfo. Ma saranno proprio le milizie sciite irachene addestrate dai pasdaran iraniani a combattere con i peshmerga curdi contro l’Isil, certo non i soldatini di emiri e sceicchi che da anni finanziano i movimenti estremisti per tenerli lontani da casa loro. Come in Siria toccherà proprio all’esercito di Assad e agli Hezbollah libanesi sostenere lo scontro con i jihadisti.
Ma tutto questo non doveva entrare negli ovattati saloni del Quai d’Orsay: la barbarie del Califfato è figlia del radicalismo islamico ma un po’ anche della nostra ipocrisia.
Alberto Negri