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 2014  settembre 15 Lunedì calendario

A dispetto del grande successo di pubblico che accoglie il romanzo, l’uscita della Storia di Elsa Morante nel 1974 suscita nella critica italiana di quegli anni pareri discordanti, grandi innamoramenti e stroncature definitive, violente prese di posizione e profondi apprezzamenti

A dispetto del grande successo di pubblico che accoglie il romanzo, l’uscita della Storia di Elsa Morante nel 1974 suscita nella critica italiana di quegli anni pareri discordanti, grandi innamoramenti e stroncature definitive, violente prese di posizione e profondi apprezzamenti. Il “romanzone” esce nel pieno del clima culturale del Decennio rosso e, nello stesso tempo, mette in scena una vicenda privata sullo sfondo di eventi ancora vivissimi nella memoria dei lettori, in un rapporto tra cronaca e Storia che diventa il vero e proprio pilastro della narrazione. La Storia esce a metà giugno e già il 18 luglio sul “manifesto” una colonna a pagina 3 a firma di Nanni Balestrini, Elisabetta Rasy, Letizia Paolozzi e Umberto Silva respinge con un’ironia neppure troppo affilata i contenuti e la forma del romanzo. Ne contestano la visione elegiaca e la scrittura mediocre. Gli autori, che rivendicano di non aver letto il romanzo, non se la prendono tanto con la scrittrice e la sua opera, però, quanto con la politica culturale del giornale e, in particolare, con un articolo elogiativo pubblicato il 6 da Liana Cellerino che, sostanzialmente, propone il libro come il grande romanzo dei poveracci. Quello di Balestrini, Rasy, Paolozzi e Silva è, in effetti, un attacco alla mediocrità piccolo-borghese che sottostà all’ideologia complessiva dell’opera di Elsa Morante e che coinvolge gli intellettuali che in quell’ideologia si riconoscono. Alla provocazione risponde, nel giro di ventiquattr’ore, Rina Gagliardi, prendendo posizione, con piglio altrettanto provocatorio, contro le tentazioni zdanoviane di Balestrini. Sebbene giudichi molto negativamente il romanzo “da un punto di vista marxista e proletario”, Franco Rella, nel suo intervento del 24, sembra orientato, però, a rimettere a posto le cose sostenendo le posizioni dei critici di Morante con un’analisi più articolata che fa leva sull’adesione dell’autrice al linguaggio e all’ideologia dei suoi personaggi. È pero Luigi Pintor, a nome della redazione del quotidiano comunista, a criticare con maggiore violenza il giudizio tranchant dei quattro scrittori. Nel suo brevissimo intervento, che segue le due colonne di Rella, non esita a definire la mancata argomentazione della stroncatura della Storia una forma di “fascismo intellettuale (ma l’aggettivo è superfluo)” con particolare riguardo per l’associazione “ignobile”, nel testo di Balestrini, Rasy, Paolozzi e Silva, del nome di Natalia Ginzburg a quello “della Pagliuca”. Chi sia Natalia Ginzburg è noto. Meno nota è forse chi fosse Diletta Pagliuca e perché l’accostamento al suo nome potesse risultare allora un atto ignobile. Condannata a quattro anni per sevizie nei confronti dei pazienti psichiatrici ricoverati nella sua clinica romana, suor Diletta Pagliuca era stata al centro di un caso di cronaca che aveva fatto scalpore nel marzo di quell’anno. Si capisce che, per quanto giocato tutto sulla chiave dell’ironia, il romanzo di Morante e l’intervento dei quattro intellettuali dovevano avere un poco agitato le acque di quell’inizio estate. Ma che il dibattito fosse così acceso è violento non sarebbe ragione di stupore, se solo si tenesse conto che ad essere in gioco qui non sono soltanto due modi di concepire la scrittura, la rappresentazione e l’arte, ma una filosofia della storia, da una parte, e una concezione pietrificata e tragica (“uno scandalo che dura da diecimila anni”) del reale, dall’altra. Persino Enzo Siciliano, che di Morante è amico e estimatore, non può accettare una resa all’immanenza come quella messa in scena dalla Storia. Scrive Garboli, nella sua innamoratissima introduzione all’edizione Einaudi del 1994, che Morante ha reciso con mano fermissima il cordone tra i destini individuali delle persone e la loro appartenenza a un destino, a un progetto, a uno straccio qualunque di disegno, di provvidenza, di trascendenza storica. (p. xxiii) Sarebbe ingenuo, oggi, ridurre quelle critiche a una declinazione di precetti ideologici più o meno in voga in quegli anni. Sono in opera, invece, un mondo e il desiderio di cambiarlo da una parte e, dall’altra, l’accettazione passiva del suo darsi. Se ci colpiscono oggi giudizi così severi contro quel romanzo, come sono quelli di Balestrini o di Siciliano o di Rella è piuttosto perché non siamo più in grado di elaborare una qualsivoglia teleologia della Storia e, nel corso degli ultimi quarant’anni, nel bene o nel male, ci siamo sempre più avvicinati a chi a quel giudizio è stato sottoposto, proprio mentre ci allontanavamo da chi quel giudizio emetteva.