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 2014  settembre 13 Sabato calendario

ALLA CONFERENZA STAMPA DI MARCHIONNE SU FERRARI NON HO SENTITO L’UNICA DOMANDA CHE DOVEVA ESSERE FATTA DAI GIORNALISTI. QUESTA

Cari amici lettori,
mi avete scritto in molti, chiedendomi di commentare ancora (siamo al commento dei commenti) il caso Marchionne-Montezemolo. Lo farò con due camei diversi: oggi parlando da «giornalista» (tenete presente che in questo mestiere ci sono da poco, ho una certa ruvidezza di pensiero). Prossimamente, lo farò come «manager», e come studioso del caso Fiat-Chrysler.
Una premessa, a titolo personale, che vale per entrambi i camei. In termini strategici, trovo giusta la decisione di Marchionne di dimissionare Montezemolo, che poi i due fossero anche esteticamente non compatibili, come nota Carlo De Benedetti, rafforza la scelta.
Sbagliata invece la decisione, mi auguro tattica, di affidare la Presidenza Ferrari a Marchionne, e non a John Elkann. Ho letto che pure la moglie Lavinia voleva John Presidente: brava, le donne hanno settimi sensi, assenti nei maschi. Riconosco che questa mia posizione sconta uno scenario contenuto nel mio prossimo libro in uscita «Fiat, una storia d’amore (finita)», che ipotizza, dal punto di vista degli interessi della Famiglia Agnelli, il disporre «in berta», come si diceva a Mirafiori, una exit strategy da FCA. In questi momenti, come mi ha insegnato il grande Michel Crozier, bisogna studiare le strategie «personali» dei singoli, per verificarne la compatibilità con quella aziendale. Quella di Marchionne (a mio parere molto «strutturata») è compatibile con quella della Famiglia? Temo che, di qui in avanti, faranno sempre più fatica a coincidere (in conferenza stampa un breve inciso di Marchionne c’è stato), prima del 2018 qualcosa succederà (una faglia di Sant’Andrea?).
Il caso Montezemolo si inserisce in questo processo di continuo, naturale equilibrismo fra ambizioni personali e interessi aziendali. Al contempo, bisogna rendersi conto che Marchionne e la Famiglia Agnelli si stanno giocando tutto: una partita a scacchi (all’interno) e una ai dadi (all’esterno). La conferenza stampa a Maranello è stata uno degli eventi più imbarazzanti a cui mi sia capitato assistere in televisione. Mi ha ricordato quella di Colin Powell, costretto a parlare dell’esistenza di armi di distruzione di massa, mentre, osservando il suo volto perbene di ex generale, si capiva che queste non esistevano, erano bugie supportate solo da false slide. Lo stesso qua, un improvvido tentativo di far credere alla stampa che Montezemolo veniva licenziato perché la Ferrari da 6 anni non vinceva il campionato F1. Nel frattempo, la Ferrari consuntivava profitti stratosferici (e diciamolo: la F1, a essere generosi, ha una pura valenza ancillare al business).
Qui sta il mio imbarazzo. Imbarazzo verso Montezemolo, dal quale mi sarei aspettato un comportamento da ex alto dirigente Fiat (ricordi Luca? Noi, i collaboratori che lo meritavano, li licenziavamo, però in una atmosfera di cimiteriale rispetto, e quando, come naturale, era il nostro turno, con sguardo limpido e voce ferma, si pronunciava la formula di rito: «Mi dimetto per motivi personali», e poi, silenzio tombale. Certo, tutti sapevamo che era una bugia, ma lo stile di management sabaudo questo imponeva. Credimi, il riferimento poi al figlioletto di 4 anni da andare a prendere a scuola, potevi evitarcelo).
Imbarazzo verso Marchionne, il suo tentativo di recitare la parte del rilassato, del sorridente, anzi del ridanciano, è miseramente crollato quando si è lanciato in due «grasse risate»: non essendosi allenato prima, sono state mediaticamente disastrose. Gli uomini come lui, totalmente assenti di sfaccettature, in tv devono sempre presentarsi nature.
Imbarazzo infine verso i colleghi giornalisti, non quelli «sportivi» che hanno fatto domande da «bottega», ma gli altri. C’era una sola domanda da fare, e non è stata fatta. Eppure, vi era stata alzata la palla con un elegante: «E ora sparate le vostre cazzate» (testuale). Questa: «Dottor Marchionne, in soldoni ci ha detto che Montezemolo viene dimissionato per i risultati, non certo della Ferrari ma del Reparto Corse, modalità più da allenatore di calcio che da manager. Comunque sia, va bene così, sono le regole del management, chi sbaglia paga. Lei in questi 10 anni ha fatto 9 Piani Strategici (cfr. «American Dream», Marco Cobianchi), lasciamo perdere il 9°, che scade nel 2018, secondo lei perché la Proprietà non l’ha licenziata avendoli toppati tutti, in primis il celebre «Fabbrica Italia?».
Lui, di colpo sarebbe tornato il Marchionne che conosciamo, avrebbe fulminato il malcapitato, iniziato una feroce filippica difensiva ricca di suggestive argomentazioni, massacrato dialetticamente e reso ridicolo il tapino. Il giorno dopo, sui giornali ci saremmo divisi, i suoi tanti ammiratori avrebbero sottolineato il «provincialismo» della classe giornalistica italiana, altri avrebbero ironizzato sulla sua dimensione napoleonica.
Ammettiamolo, gli sconfitti siamo noi della stampa, non abbiamo fatto il nostro mestiere, con schiena dritta.
Riccardo Ruggeri, ItaliaOggi 13/9/2014