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 2014  settembre 14 Domenica calendario

«Piombò sulla città di Padova e particolarmente sull’Orto, nel dì 26 agosto 1834 una grandine di mole sì sterminata che malconce, ferite o morte le piante che a quel tempo erano tutte all’aperto, e rotti i tetti degli edifizii e fracassati i vetri delle sue serre, ridusse in brev’ora dalla floridezza passata le sue piante ad un ingombro di foglie lacere, di frondi spezzate, di tronchi ignudi; i suoi coperti, i suoi vasi a un cumulo di macerie»

«Piombò sulla città di Padova e particolarmente sull’Orto, nel dì 26 agosto 1834 una grandine di mole sì sterminata che malconce, ferite o morte le piante che a quel tempo erano tutte all’aperto, e rotti i tetti degli edifizii e fracassati i vetri delle sue serre, ridusse in brev’ora dalla floridezza passata le sue piante ad un ingombro di foglie lacere, di frondi spezzate, di tronchi ignudi; i suoi coperti, i suoi vasi a un cumulo di macerie». Pareva impossibile, dopo quella «bomba d’acqua» descritta a metà Ottocento da Roberto de Visiani, che l’Orto Botanico di Padova tornasse a nuova vita. Tornò a rinascere, invece. E proprio come certe piante sembrano perdute e al contrario, a sorpresa, buttano una mattina delle nuove gemme, così il più antico Hortus simplicium o Hortus medicus del mondo è rinato più volte. Fino a diventare così celebre da essere riconosciuto nel ‘97 come Patrimonio Mondiale dell’Umanità perché «è all’origine di tutti gli orti botanici del mondo e rappresenta la culla della scienza, degli scambi scientifici e della comprensione delle relazioni tra la natura e la cultura» e «ha largamente contribuito al progresso di numerose discipline scientifiche moderne, in particolare la botanica, la medicina, la chimica, l’ecologia e la farmacia». Una funzione essenziale. Tre secoli prima del dilagare sul web di guaritori e ciarlatani dalle pozioni stupefacenti, l’eccellentissimo dottor Fulvio Gherli, «medico attuale dell’altezza serenissima Signor principe Foresto d’Este», dava alle stampe un volume intitolato «I medicamenti posti alla pietra del paragone. O sia una disamina di tutti i Rimedj delle Speziarie, in cui si scoprono tutti gli errori di molti speziali nel fabbricarli, e di non pochi medici nell’ordinarli, facendo in tal modo conoscere la vera idea del medico pratico». Erano troppi, ancora nel 1722, a commettere sbagli fatali nell’uso di erbe medicinali descritte in opere antichissime quali il Papiro di Erbes in Egitto, l’erbario dell’imperatore cinese Shen Nung o i Veda della civiltà indiana, compilati tremila anni prima di Cristo. E non sbagliavano solo certi trafficoni della salute: anche tanti medici. Per questo due secoli prima, nel 1545, il Senato veneziano aveva voluto che l’università patavina desse vita a due passi dalla Basilica del Santo, in quello che oggi è il centro storico cittadino, al progetto di Francesco Bonafede, studioso dei «semplici», le piante medicinali. E per questo l’orto padovano, protetto nel 1522 da un muro di cinta per proteggerlo dalle continue incursioni dei ladri, è stato per secoli il fiore all’occhiello, in senso letterale, dell’ateneo veneto. Via via arricchito con migliaia di piante (seimila, oggi) di specie diverse, dall’albero d’alto fusto alla piantina nana amorevolmente curata in qualche spicchio di terra recintato con bassi muretti ordinatissimi. Di alcune piante è rimasta traccia solo alla voce «curiosità»: come la patata, originaria del Perù, della Bolivia, del Messico e del Cile, che qui venne piantata per la prima volta in Italia. Altre sono ancora qui, cariche di secoli e di fascino. Come il gigantesco platano orientale del 1680 col fusto scavato forse da un fulmine o un ginkgo maschio con un ramo femmina piantato nel 1750 o una magnolia probabilmente del 1786. E su tutti una palma di S. Pietro messa a dimora nel 1585, conservata in una antica serra ottagonale e resa famosa da Goethe, che ne trasse spunto per «La metamorfosi delle piante» dopo aver passato ore a studiarla alla fine di settembre del 1786: «Le foglie che sorgevano dal suolo erano semplici e fatte a lancia; poi andavano dividendosi sempre più, finché apparivano spartite come le dita di una mano spiegata…» A farla corta, questo gioiello che tiene insieme la storia e la botanica, la medicina e l’architettura ed è l’unico esempio planetario di orto-giardino (insieme con il Kew Garden londinese, molto più grande ma molto meno antico) benedetto come patrimonio dell’umanità, potrebbe vivere di rendita. Ma può una creatura vivente come un giardino rimanere vivo, scusate il bisticcio, senza rinascere buttando nuove gemme? No, ha risposto l’università di Padova. E così, una decina di anni fa, «con l’obiettivo di rimanere innovativi come lo erano stati costruendo l’orto nel Cinquecento», spiega il rettore Giuseppe Zaccaria, è stato deciso di ampliare l’antico e struggente Hortus simplicium, che ospita tra l’altro un itinerario studiato espressamente per non vedenti e ipovedenti, con uno spazio dedicato alla biodiversità. Una serra immensa ma leggera, progettata dall’architetto Giorgio Strappazzon, tutta luce e vetro e acciaio, lunga centodieci metri e alta diciotto, che si riflette in un gioco reciproco di specchi in enormi vasche piene di piante acquatiche tra l’orto antico e le cupole della Basilica del Monastero di Santa Giustina dei benedettini. Obiettivo: «Creare un percorso “fitogeografico” (dall’America all’Africa, dall’Asia all’Europa, fino all’Oceania) e assieme un viaggio attraverso i biomi del pianeta: dalle aree tropicali alle zone subumide, dalle zone temperate a quelle aride. Per rendere visibile il patrimonio di biodiversità che ogni angolo della Terra custodisce, dal più ricco al più povero, dal più protetto al più minacciato». Ed ecco piante che vivono nelle foreste pluviali tropicali e nelle savane, nei deserti americani e in quelli africani. Ospitate nelle condizioni giuste grazie all’energia solare, all’utilizzo delle brezze o all’acqua di un pozzo artesiano che, prelevata a 284 metri di profondità, assicura una temperatura costante a 24 gradi permettendo di vivere tutto l’anno alle piante acquatiche tropicali. Certo, per quanto siano milletrecento alcune delle quali spettacolari e a starci in mezzo sembrino tantissime (le preferite dai ragazzi, potete scommetterci, saranno le piante carnivore) si tratta solo di una piccola parte del patrimonio vegetale planetario. Né potrebbe essere diversamente: il 99,5% degli esseri viventi presenti sul pianeta, spiegano i curatori dell’Orto, «appartiene a specie vegetali» e solo il 10% di queste specie «è conosciuto mentre si stima che ogni giorno si estinguano centinaia di specie mai conosciute». Fatto sta che, dopo l’inaugurazione fissata per domani, come spiega il prefetto (cioè il direttore) della struttura, Giorgio Casadoro, l’Orto è destinato a diventare «la più straordinaria esposizione italiana della diversità botanica mondiale. La più antica e insieme, nella sua parte nuova, la più avveniristica». Con un occhio all’Expo: «Noi daremo la massima visibilità a loro e loro nel Padiglione Italia daranno la massima visibilità a noi», dice il rettore, «Ma soprattutto hanno affidato a noi la cura della mostra sulla diversità botanica delle regioni italiane. E sarà una ulteriore occasione per ricordare il ruolo del nostro Orto, che per secoli ha visto arrivare qui piante medicinali da tutto il mondo e da qui diffondersi nel mondo la sapienza scientifica sul loro uso».