Antonio Dipollina, la Repubblica 14/9/2014, 14 settembre 2014
EUGENIO FINARDI
Il brillante ero io, in senso tecnico. Il cuore per i fatti suoi, la tiroide da togliere. Me la tolgono e lì, alla fine, mi sento pacificato per la prima volta nella vita». Ride, Eugenio Finardi e aggiunge dettagli: «Della fibrillazione è rimasto un elettrocardiogramma gigante che ho stampato sulla maglietta che indosso in qualche concerto». Fibrillante era lui, e Fibrillante ha chiamato il nuovo disco in cui ha deciso una cosa semplice: «Visto che era arrivata questa sorta di pace interiore, ho ripreso a buttare giù canzoni anche cattive, per andare a parlare di quello che gira intorno e che mi piace sempre meno». E infatti le canzoni che fibrillano nel disco chiamano all’indignazione, o raccontano storie disperate ma comuni di padri esclusi dalla famiglia, di donne che piangono da sole in macchina, danno conto dell’attesa — frustrata — continua e comunque in qualcuno, qualcosa. Negli anni, dopo le fiammate di gioventù, Finardi è andato a cercarsi musica del mondo, spaziando tra Portogallo e Americhe, sperimentazioni e collaborazioni: oggi, per ritrovarsi, ha chiamato nuove leve di musica che piace a lui, tipi da Subsonica, Afterhours, Perturbazione e radunato vecchi leoni come Patrizio Fariselli per riportare, in finale di disco, atmosfere ex Area, giro Cramps dalla famosa etichetta discografica. «Vado in tour, chiaro che non posso reggere troppi concerti come una volta, ma una volta in pista ci diamo dentro parecchio».
Ma appunto la storia incendiaria è quella di allora, del ragazzo italo-americano di buona famiglia (la madre era una cantante lirica statunitense), un piede qui e uno negli States, salvo esprimere preferenze nette anche in canzone («A Boston c’è la neve e si muore di noia») e correre in Italia più che si poteva, un’Italia che era quella là. I famigerati anni Settanta, no? «E certo, quelli di piombo.
Allora: quelli bui davvero sono stati gli ultimi del decennio, da Moro in avanti. Prima era un’altra cosa, prima in quegli anni è passata la creatività pazzesca del mondo nella pelle di tutti noi, cose irripetibili, canzoni, musica, cinema. Se devo scegliere un ricordo personale è proprio localizzato a Boston: io e un amico, magari non proprio lucidissimi quella sera, andiamo a vedere questo Keith Jarrett di cui si parla assai: e c’è questo omino che mette dentro il pianoforte tutta la musica del mondo e di tutte le epoche possibili, ci sento dentro Mozart, poi l’Africa, poi il cosmo, poi tutto. In una sera soltanto tutta la musica e tutto il mondo, scoprendo che doveva esserci quindi un’armonia completa da qualche parte e stava dentro quel pianoforte, quella sera. E il punto è che io continuavo a sentirmi molto più italiano che americano, la distinzione vera era tra Europa e America e ho sempre scelto la prima».
Dall’elenco che Finardi riesce a elaborare di occasioni e spettacoli e Isole di Wight ed Hendrix o Miles Davis elettrico — ma anche Emerson, Lake & Palmer — visti dal vivo all’epoca, allo stato nascente delle cose, si può andare avanti per ore. Ma qui il senso sarebbe che a un certo punto, a metà di quegli anni, sbuca un certo Eugenio Finardi che mette in musica slogan come Musica Ribelle o cose più intimiste, oppure l’epopea Diesel dei trucks che traforano il paese da mattina a sera: «Non ero uno facile e lo so benissimo, c’era un’esuberanza superiore: ma quello che rivendico è che appartenevo a una storia tutta mia, non scopiazzavo gli americani, non facevo quello che, legittimamente, facevano e continuano a fare i grandi di casa nostra, ovvero prendere il rock e il pop americano e portarlo in italiano. Io facevo cose che potevi definire italiane davvero, con influenze, certo, magari anche la classica ascoltata in casa, ma che a risentirle ancora oggi posso rivendicare come musica originale e non sulla scia di qualcosa».
E poi c’erano appunto quegli anni. «I Settanta esplodono nella testa di tutti, e io come i miei coetanei venivamo da un’Italia che era quella del libro Cuore, da ragazzino mi ricordo le servette al parco con la carrozzina del bimbo. E arriva l’onda forte che taglia il mondo, ci sono dentro, a vent’anni mi ritrovo addirittura con il contratto con la stessa casa discografica di Lucio Battisti, finché non incrocio Fabrizio De André: mi spiega che gli serve una band per aprire i concerti del suo tour e mi dice in modo chiaro che gli serve un gruppo per far sfogare prima il pubblico, anzi no, mi disse: “Ho bisogno di un gruppo che faccia svuotare le tasche alla gente dai sassi che hanno dentro”. Era un paradosso ma siamo lì, e scoprii subito che lui, Fabrizio, non ci stava al diktat che la band di supporto devi trattarla male, diventammo amici subito anche se io ero smandrappato e ribelle e forse impresentabile, tanto che una notte Cristiano scappa di casa e viene a rifugiarsi da me: io gli do corda, lo assecondo un po’, riesco a metterlo a dormire. Poi prendo il telefono e chiamo Fabrizio: tranquillo, è qui da me, dorme».
Anni così, appunto, perché la sede vera diventa Milano che era «altrettanto pazzesca, emblema del mondo, cosmopolita davvero, aperta a tutto. In un contesto, quello musicale, dove succedeva di tutto e tutto di ottimo livello, eravamo tantissimi a metterci dentro cose e musica e idee e tutti avevamo seguito, anche la Nuova Compagnia di Canto Popolare, per dire, cose meravigliose e stranissime che la gente seguiva. E io nel mio giro, che prediligeva soprattutto quelli diciamo cittadini del mondo, come ero io, ibridi come Demetrio Stratos, per metà greco, o Alberto Camerini, per metà brasiliano, mi trovavo alla perfezione con loro e succedevano cose come le edizioni del Parco Lambro…». Esiste registrazione, lei sale sul palco di sera, vede tutti gli accendini accesi e dice: «Sembra un cimitero». «Era una battuta, ma a ben guardare c’era anche una mezza profezia su come sarebbe andata a finire di lì a poco».
Racconta Finardi da uno spicchio di Milano dominato a pochi metri da uno dei suoi monumenti principali (lo stadio) e la vena malinconica cresce e si fa rabbiosa: «Qui intorno, quartiere ultraresidenziale, vedo esempi ed esibizioni di ricchezza sfacciata che fanno salire la rabbia e sono lo specchio di quanto accade. Lo sintetizzo nel disco cantando, anzi parlando, di come negli ultimi decenni la distanza tra ricchi e poveri sia diventata infernale: mi sento tra i fregati della storia, a chiedere un po’ più di uguaglianza. E lì, subito: estremista. Finché non è arrivato papa Francesco a dire le stesse cose, o si è scoperto che negli Usa sono anche i repubblicani a chiedere uguaglianza».
Si appassiona e sale nei toni — da ex fibrillante — Finardi e squaderna un sapere enciclopedico sui guai di casa nostra intesa come riflesso del mondo intero, pazzie strategiche sul lavoro, da noi le fabbriche di autobus fatte chiudere a viva forza («Ognuno dovrebbe guardarsi la storia dell’Iribus») e poi costretti a comprarci gli autobus altrove. «Non riesco a staccarmi dalle speranze che c’erano una volta. O da quelle realtà: vero, ero di famiglia più che borghese, ma mio padre dirigente prima di tutto non ci ha fatto mai sentire ricchi e poi guadagnava otto volte un suo sottoposto, non ottanta o ottocento». Il punto è, spiega, che i vent’anni appena trascorsi hanno demolito tutto. «Non sono riuscito a scrivere nemmeno mezza riga sull’epopea berlusconiana, è stato così anche per un sacco di miei colleghi. Ci siamo avviliti per quello che succedeva e siamo andati a cercare altre cose in giro, come a ignorare quanto stava accadendo, ad aspettare che passasse. E quando è passata, beh, il risultato è qui in giro… ». Forse, azzardiamo, perché la scoperta davvero stordente non è stata sul potere che di suo non può essere buono per sacra definizione, quanto nello scoprire che a milioni e milioni in fondo stava benissimo, o no? «Beh, sì, inutile nascondercelo, la delusione è stata feroce e riguarda i miei simili. Ma non facciamola più grossa di quello che è, il punto è essere arrivati al mondo sballato, esagerato, clamorosamente diseguale nel quale siamo immersi. Per quello che si può ancora fare, qualcosa bisogna fare per riprovarci sempre».