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 2014  settembre 13 Sabato calendario

SEGANTINI, ELEGIA DELLA PITTURA

Al Museo Segantini di Sankt Moritz una stretta scala a chiocciola conduce a una sala dalla volta a cupola che fa pensare un po’ all’interno di una chiesa, un po’ a un planetario. Bisogna salire fin qui per cogliere, nel nitido chiarore della luce engadinese che piove dall’alto attraverso un vetro, l’ultima parola pronunciata da Giovanni Segantini sulla vita, sulla natura, sulla morte, articolata nelle tre tele gigantesche che compongono il Trittico delle Alpi.
Gigantesche e intrasportabili, tanto che persino nelle mostre più importanti, qual è quella straordinariamente ricca ora dedicata dalla città di Milano al grande pittore che vi compì la propria formazione artistica, ne vengono esposti soltanto gli abbozzi e gli studi preparatori, come se la piena epifania di questo triplice capolavoro non potesse essere disgiunta dallo scenario alpino che lo ispirò e nel quale vide la luce. E in effetti i temi della natura, della vita e della morte vi si declinano in un linguaggio fatto di pascoli, vette innevate, pastori che conducono le greggi per i sentieri a passo lento e paziente, e fatto soprattutto di una luce del tutto sconosciuta al mondo della pianura: una luce ora sospesa in una sorta di immobile meriggio, ora drammaticamente sfrangiata nel duello tra sole e nuvole, che sembra costituire per Segantini quanto di più prossimo possa darsi alla rivelazione metafisica. Come il Nietzsche innamorato di Sils Maria il cui Zarathustra ispirerà allo stesso Segantini una serie di disegni, o come pochi decenni più tardi il Thomas Mann della Montagna incantata, così questo pittore geniale e candidamente ardito, appartato rispetto alle grandi correnti artistiche europee eppure segretamente partecipe (quando non addirittura precursore) del loro travaglio sulla soglia del nuovo secolo, trova nella purezza estrema del paesaggio alpino lo scenario d’elezione per dare forma ed espressione alle proprie domande più essenziali.
Forse gli incontri decisivi non sono mai opera del caso; tanto meno può essere considerato tale quello di Segantini con le montagne grigionesi, cui si sarebbe addirittura tentati di applicare le celebri parole che Sant’Agostino attribuisce a Dio: «Tu non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato». Dalla Milano dei Navigli e della Scapigliatura, ai dolci paesaggi della Brianza, alla conca ridente di Savognin che mostra ancora all’uomo il volto più affabile della montagna, fino alle asprezze ventose di Maloja o a quella capanna abbarbicata sullo Schafberg dove dipinse gli ultimi quadri e dove lo attendeva la morte, Segantini sembra aver compiuto un lento ma coerente percorso di avvicinamento a quello che sarebbe stato per lui il luogo e il soggetto ideale, l’unico in grado di incarnare pienamente la sua intuizione dell’assoluto. E l’ardente, nebulosa spirale da cui irrompe il sole nel quadro intitolato alla morte, sovrastando come un mistero glorioso il campo innevato e la slitta con il feretro, non è forse già anticipata da quella sorta di raggiera luminosa che si effonde attorno alla barca nella brianzola Ave Maria a trasbordo? Certo in una chiave più tenue e sommessa, più «lombarda»... Il che contribuisce a fare della mostra milanese non solo una grande occasione, ma un ritorno, come se questo orfano che della città fu per 17 anni figlio adottivo, questo apolide nato nel Trentino ancora austriaco e destinato alle altezze impervie dell’Engadina, avesse maturato proprio quaggiù, sotto il nostro cielo, quelli che sarebbero rimasti per sempre gli elementi fondativi della sua poetica.

SECONDO PEZZO
La sua tragica scomparsa, ad appena 41 anni, dopo aver lavorato al Trittico della natura sul monte Schafberg, a 2.700 metri di altezza e la suggestione per quella coraggiosa scelta di vita, per quell’avventura artistica tra gli scenari dell’Engadina, nella trasparenza della sua luce e dei suoi cieli, hanno sicuramente contribuito a creare intorno a Segantini quell’alone di leggenda arrivato fino a noi. Un vero gigante è stato infatti l’artista, tra i più quotati e richiesti del suo tempo, presente con le sue opere nelle più prestigiose collezioni pubbliche e private europee, eppure dopo la sua morte a lungo dimenticato, ancora pienamente da riscoprire nelle sue contraddizioni e nei suoi misteri.
Ad andare oltre il mito, a svelare in tutta la sua complessità questa figura di uomo e di artista capace di reinterpretare le istanze della sua epoca, fondendo tradizione e innovazione, trasfigurando l’eredità del naturalismo in visioni simboliste di straordinaria forza evocativa, è oggi il grande evento di Palazzo Reale curato da Annie-Paule Quinsac, massima esperta del pittore a cui ha dedicato importanti studi critici e Diana Segantini, bisnipote dell’artista. Una retrospettiva che per la prima volta presenta a Milano oltre 120 opere — 61 dipinti e 65 disegni — tra cui celebri capolavori e alcuni preziosi inediti per l’Italia, a delinearne in tutta la ricchezza non un solo periodo ma l’intera parabola creativa.
«Indagare il fenomeno Segantini alla luce dei legami con questa città, matrice del suo pensiero estetico e punto di riferimento culturale per tutta la vita, è infatti il filo conduttore della mostra. Anche se gli inizi milanesi per lui, nato ad Arco di Trento, ancora in terra austriaca, nel 1858, orfano e poverissimo, sono difficili, sarà proprio Milano il luogo del riscatto dove metterà in luce il suo straordinario talento, la piazza dove continuerà ad esporre e a ricevere riconoscimenti e successi, grazie anche all’appoggio di Vittore Grubicy, colto gallerista e mecenate che lo introdurrà nei circoli liberal-intellettuali e presso l’alta borghesia milanese — precisa Annie-Paule Quinsac —. E quando nel 1882, dopo 17 anni fondamentali per la sua carriera, lascerà la città per la Brianza prima, per i Grigioni e il Maloja poi, resterà una figura dominante anche da outsider, anche a distanza, entrando con i suoi scritti teorici nel vivace dibattito culturale di quegli anni che vedono il passaggio dagli ultimi fuochi della Scapigliatura ai fermenti del Divisionismo fino al trionfo del Simbolismo e alle prime suggestioni del Liberty». Tutte le tematiche più care all’artista sono evidenziate nel percorso, organizzato in otto sezioni, con ampio spazio riservato ai disegni tratti da dipinti già realizzati a dimostrare l’evoluzione del suo linguaggio pittorico, come per il celeberrimo Ave Maria a trasbordo rivisto in chiave divisionista o Alla stanga , accostato a un disegno successivo in cui la luce e il punto di osservazione cambiano.
Dopo i lavori milanesi degli esordi, tutti esposti in mostra, i ritratti, con La Signora Torelli o il sensuale Petalo di rosa , immagine della compagna Bice Bugatti e le nature morte, ecco le tante opere dedicate alla vita dei campi e al mondo contadino, a quegli orizzonti sconfinati, a quei paesaggi immensi di prati e rocce nei quali la figura umana sembra quasi scomparire, in una nuova resa panteistica della natura. Partito da Millet, Segantini va oltre.
Della scena ricerca la poesia, l’armonia e il mistero di quanto lo circonda.
Intanto anche la sua tavolozza cambia, passando dal caldo tonalismo lombardo a colori più limpidi, chiari, elaborati in lunghi filamenti divisi per meglio rendere le vibrazioni luminose e l’atmosfera rarefatta delle Alpi, senza tuttavia tralasciare l’impiego più classico, rinascimentale, dell’oro e dell’argento. Il suo è un divisionismo altissimo, personale, che non rinuncia a rendere la fisicità dei monti, la resa tattile delle cose, anche nelle sue visioni allegoriche, nelle sue immagini più simboliche dove la realtà trasfigura nel sogno. Ed è proprio la conquista del Simbolismo, forse uno degli aspetti meno indagati o compresi del pittore, a manifestarsi in tutta la sua fascinazione nella sezione riservata al tema della maternità, che accanto a un’opera eccelsa, di valenza universale come Le due madri , vede capolavori assoluti quali L’angelo della vita , nelle due versioni di Milano e di Budapest o L’amore alla fonte della vita . Sarà poi quel Trittico della natura alla sua morte lasciato incompiuto e in mostra ricostruito attraverso video, studi e disegni, il testamento spirituale dell’artista.
Francesca Montorfano

TERZO PEZZO
La rappresentazione della madre col bambino in braccio è tanto antica quanto quella della dea egizia Iside con il figlio Oro. Anche il cristianesimo sentì il bisogno di offrire alla venerazione dei fedeli una figura materna e questa iconografia fu incoraggiata, in particolare dopo il 431, quando il concilio di Efeso condannò come eretica la posizione nestoriana per cui Maria era solo madre dell’uomo Gesù e non anche della sua persona divina. Dunque, millenni di immagini ci hanno abituati ad interpretare una figura femminile, rappresentata col figlio, come una divinità.
Fra la popolana con i capelli fasciati da uno scialle ritratta da Raffaello ne La Madonna della seggiola e la contadina con la cuffia de Le due madri di Segantini non dovrebbe, pertanto, passare alcuna differenza. Un occhio esperto, però, potrebbe subito individuare nella prima ragazza la madre di Dio e nella seconda una delle tante contadine che abitavano la campagna, grazie ad alcuni segni che compaiono solo in Raffaello come l’aureola e la presenza di un altro bambino che tiene una croce e le mani giunte in preghiera, ossia san Giovannino.
Ma, allora, la ragazza che si addormenta mentre culla il bambino, che Caravaggio ha ritratto priva di aureola e senza san Giovannino ne Il riposo dalla fuga in Egitto, è una semplice contadina come quella dipinta da Segantini? Ignari del catechismo (come del resto la maggior parte dei nostri studenti di storia dell’arte), come possono giapponesi o arabi, spiegarsi il fatto che quello del Caravaggio è un quadro sacro, mentre Le due madri di Segantini è un quadro da salotto? Perché davanti al primo si può pregare mentre davanti alla tela di Segantini, al massimo discettiamo di luce e tonalismo? Perché una delle due ragazze è santa e l’altra no? Da quali elementi iconografici lo capiamo, visto che anche la santa Vergine col Bambino può essere rappresentata in una stalla con un bue?
Il fatto è che fra i due quadri siamo passati dal simbolo al Simbolismo. Proprio quando la pittura religiosa viene meno, soppiantata nella seconda metà dell’Ottocento dai soggetti borghesi, nasce la sensibilità simbolista che va a cercare fuori dalla realtà un surplus di spiritualità, esplorando le dimensioni più profonde e misteriose dell’esistenza.
Una ricognizione che spinge gli artisti nei territori più disparati, da quelli mitologici a quelli mistici o erotici, dall’esotismo all’esoterismo. Volendo ma non riuscendo a scrollarsi di dosso secoli di religiosità istituzionalizzata, dopo Newton e la Rivoluzione francese, l’Europa del tardo Ottocento si riscopre allora spirituale in versione panteista, intenta a percepire «la segreta lingua delle cose mute», come scriveva Charles Baudelaire. Lo sguardo si rivolge alla natura: «È un tempio la natura/ove viventi/pilastri a volte confuse parole/mandano fuori; la attraversa l’uomo/tra foreste di simboli dagli occhi/familiari».
Dal Belgio all’Italia, dall’Inghilterra all’Austria il sentimento irrazionale degli artisti fa da controcanto al Positivismo; l’eccentricità alla norma perbenista e borghese.
È uno spazio mentale fluido, emozionale e sentimentale che va a sostituirsi allo spazio tetragono del simbolo che invece diceva insieme, in modo univoco e compiuto in sé stesso, concetto e immagine. La sintesi del simbolo viene sostituita dalla narratività della favola. Così, se il simbolo era l’identità fra la cosa e la sua rappresentazione, il Simbolismo fu la risonanza emotiva scatenata dalle possibilità delle immagini.
Mentre l’unico pensiero che passava per la testa di Raffaello quando dipingeva l’immagine della madre col bambino era fare sfoggio del proprio virtuosismo pittorico, essendo il soggetto del dipinto un simbolo religioso chiaro e riconosciuto; per Segantini, invece, era in gioco un coinvolgimento emotivo. Egli non si sentiva un artigiano ma un vate, un Artista che viveva comunque sopra la condizione dei contadini da lui dipinti e che predicava la sua personale religione estetica della vita, la sua terra del mito. Una religiosità, dunque, che non passa più attraverso il clero e la dottrina, ma dalla natura.
Così, paradossalmente, mentre il simbolo rivela il sacro, il Simbolismo lo occulta dietro il mistero. Scompare il simbolo e rimane il suo vagheggiamento.
Francesca Bonazzoli